I padroni della Penisola araba hanno la grande facoltà, o forse l’ossessione, di stupire. Dopo la metà del XX secolo quest’area ha marcato un passaggio “socio-economico”: prima la famiglia Saud, poi i vari Emirati e Sultanati – Maktoum in testa – hanno esploso, innescate dal petrolio, le loro potenzialità e le più ardite fantasie. Questi “Re totali” si sono immersi in un vortice di onnipotenza economica che ha scardinato il limite dell’esagerazione, creando così un sistema di “giochi” di ricchezza e di grandezza, che ha tolto ogni barriera anche ai dogmi. Mancava nel loro carniere l’occasione per superare, con il potere economico dato dall’oro nero, quei “parametri” che i potenti del pianeta impongono a chi vuole godere di far parte della ristretta cerchia dei burattinai planetari o magari dei sotto-burattinai.
Tra questi parametri, i più “gettonati” di oggi riguardano il famigerato cambiamento climatico, originato dal riscaldamento globale provocato dall’uomo, che deve essere combattuto pena “l’estinzione umana”. Ma combattere il cambiamento climatico, mosso da qualsiasi causa, è come voler combattere il passaggio delle stagioni. Quindi non stupisce che gli Emirati arabi uniti, sempre più al centro dei giochi mondiali da tutti i punti di vista, acquistino in Africa enormi distese di foreste non per ricavarne legna, bensì per ottenere “crediti verdi” che possano controbilanciare le continue emissioni di gas provenienti dalle varie attività legate all’energia fossile presenti sul proprio territorio. Cioè “debiti verdi”.
Perciò a fine marzo di questo anno, con una fraterna stretta di mano, lo sceicco Ahmed Dalmook al-Maktoum e il ministro delle Finanze liberiano hanno stretto un accordo trentennale sulle “foreste della Liberia”. Il memorandum d’intesa tra Dubai e Monrovia ha una valenza politico-economica senza precedenti. In particolare, l’accordo tra Emirati arabi uniti e Liberia prevede che il Governo liberiano ceda per tre decenni alla società emiratina Blue Carbon i diritti esclusivi su circa un milione di ettari delle foreste liberiane, che corrisponde a oltre il dieci per cento della superficie di questo Paese dell’Africa occidentale. Successivamente, la stessa operazione è stata fatta con gli Esecutivi di Tanzania, Zambia e dello Zimbabwe, per un totale di 25 milioni di ettari, quasi l’estensione dell’Italia (poco più di 30 milioni di ettari).
Ma in quale “fantasioso quadro strategico planetario” si colloca tale operazione? Il tutto orbita intorno all’articolo 6 dell’accordo sul clima concluso a Parigi nel dicembre del 2015 durante la Cop21. Tale “convenzione” consente ai Paesi aderenti di cooperare per raggiungere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. Pertanto, una nazione che riduce, oltre le previsioni, le proprie emissioni “gassose” può vendere le sue “eccedenze”, sotto forma di crediti verdi, a un Paese “inquinatore seriale”, che può utilizzarli per compensare le proprie disinvolte emissioni gassose. Oltre l’oggettivo paradosso espresso da questa normativa – partorita da chi genera gas serra – è evidente che chi produce anidride carbonica, metano o protossido di azoto, solo per citare i “capi-lista”, potrà continuare a farlo solo acquistando, da Paesi meno inquinanti, foreste, quindi “crediti di ossigeno”, che compenseranno l’inquinamento da gas serra.
Il principe al-Maktoum ha “venduto” queste partnership, affermando che segnano una svolta in direzione dell’obiettivo di aiutare la transizione verso un sistema economico a basse emissioni di carbonio! Tali accordi, secondo Maktoum, permettono ai Governi sottoscrittori di raggiungere i loro obiettivi di neutralità carbonica grazie alla trasferibilità – ma sarebbe meglio dire acquisto – dei crediti, come previsto dall’articolo 6 dell’accordo di Parigi. Quindi, questi crediti di “aria respirabile” possono essere acquistati dalle aziende inquinanti per evitare di dover ridurre le proprie emissioni. È palese che questa opzione anti-inquinamento da gas serra, molto opinabile, sia piuttosto l’escamotage dei Paesi ricchi per fuggire dalle proprie responsabilità. In pratica, chi paga può tranquillamente continuare a inquinare comprando foreste in Africa. La “umanitaria” compagnia emiratina Blue Carbon ha dichiarato di voler favorire gli Stati meno industrializzati a trarre vantaggio da questo meccanismo. Comunque, tali accordi di scambio tra crediti di ossigeno e debiti di carbonio sono stati formalizzati alla Cop28 organizzata negli Emirati arabi uniti il 30 novembre. In questo contesto, è stata suggellata anche un’altra politica umanitaria, pseudo generosa, legata ai gas, quella della questione “loss and damage” (perdite e danni). In pratica, la compensazione finanziaria pagabile ai Paesi poveri vittime delle conseguenze del cambiamento climatico!
Gli Emirati arabi uniti hanno inoltre assicurato che erogheranno 100 milioni di dollari a questi Stati danneggiati dal cambiamento climatico. Non solo: le regole sono ancora poco chiare per l’utilizzo dello strumento dei crediti, soprattutto per ciò che concerne la registrazione e il monitoraggio di questi progetti. Tuttavia, il mercato dei “crediti verdi” è iniziato. La realtà è una: per raggiungere gli obiettivi che una parte del mondo si è prefissata per la riduzione dei gas serra entro il 2050, le emissioni dovrebbero crollare almeno del 60 per cento e le compagnie petrolifere dovrebbero ridurre del 50 per cento i loro investimenti in petrolio e gas, anche se a oggi sono in crescita. Se tutto ciò non fosse una “tragedia ideologica”, sarebbe una commedia.
Aggiornato il 11 dicembre 2023 alle ore 09:56