Esiste un patto tra l’amministrazione statunitense di Donald Trump e il Governo giallo-blu italiano, che in questi giorni sta vivendo uno snodo decisivo con lo sblocco della costruzione in territorio italiano dell’ultimo tratto del Tap, il Trans Adriatic Pipeline? Da tempo lo sosteniamo e francamente ci stupiamo che altri lo scoprano adesso. Nell’articolo domenicale su “Il Giornale” Augusto Minzolini paventa “il sospetto di uno scambio o di un aiuto interessato (al Governo italiano n.d.r.) da parte dell’amministrazione americana, magari frutto di una trattativa segreta per mandar finalmente in porto il Tap”.
Qui non c’è dietrologia o fantapolitica che tenga, è semplicemente la ruvida concretezza delle relazioni internazionali. Donald Trump fonda la sua politica estera su alcuni punti di forza. Due di questi sono: la rottura del muro europeo a difesa degli interessi dell’economia tedesca e il ridimensionamento del peso esercitato sul vecchio continente dalla politica energetica della Russia di Vladimir Putin. Washington aveva bisogno che, contro lo strapotere tedesco condiviso con la Francia di Emmanuel Macron, si levasse la voce di un Paese europeo di prima fascia a rompere l’apparente fronte continentale anti-statunitense. Inoltre, per assestare una legnata al dominio energetico russo, Trump voleva che a tutti i costi venisse ultimato il gasdotto che porterà il gas azerbaigiano e, in futuro, quello di altri Paesi dell’area del Mar Caspio in Europa entrando dalla porta meridionale, in alternativa a quella aperta al Nord dai russi, in Germania. Obiettivi impegnativi alle cui soluzioni da tempo lavorava la diplomazia americana, con scarsi esiti fin quando nel luglio scorso atterra tra le braccia di Trump il premier italiano Giuseppe Conte che gli racconta dell’aperta contrarietà del suo Governo ad una politica europea subordinata agli interessi dell’asse carolingio. Per “The Donald”, che ha un gran fiuto per gli affari, l’incontro equivale all’acquisto a pochi dollari del biglietto vincente della lotteria nazionale.
Cosa chiede l’italiano al potente alleato? Un sostegno per reggere l’impatto con le potenze che la fanno da padrone in Europa. Nello specifico, un riconoscimento del ruolo dell’Italia nella gestione della crisi libica. Il Paese nordafricano, infatti, è in procinto di essere mangiato in un solo boccone dal neo-imperialista francese Emmanuel Macron. Conte chiede anche un aiuto a tenere botta sui mercati finanziari nel caso gli eurocrati di Bruxelles avessero provato ad usare l’arma dello spread e della delegittimazione del Debito sovrano per arrestare i tentativi di smarcamento delle politiche di Bilancio giallo-blu dalla rigida applicazione del patto di stabilità dell’eurozona. Per Trump deve essere stato come ricevere un invito a nozze da un parente bisognoso. Ed è così che lo sconosciuto professore di Diritto dell’Ateneo fiorentino, Peppino per i frequentatori abituali, d’un tratto diventa per l’inquilino della Casa Bianca: “… il mio nuovo amico Giusepi”. Avercele sempre amicizie così. Tuttavia, la strada dei rapporti destinati a durare deve essere lastricata non di buone intenzioni ma di atti e comportamenti conseguenti. Che da parte americana, nelle ultime settimane, ci sono stati e sono quelli che elenca Minzolini. Dai giudizi positivi, in controtendenza, del Wall Street Journal e dell’agenzia Bloomberg sulla manovra finanziaria italiana, alla telefonata sbandierata ai quattro venti dallo stesso Trump con il premier Conte nella quale il primo si congratula col secondo per quel che di buono e di audace il governo italiano sta facendo nell’interesse dei suoi cittadini.
Come dire: un endorsement per mettere a tacere le malelingue. E poi i giudizi non negativi delle due Agenzie di rating americane, Standard & Poor’s e Moody’s, sul merito di credito del Debito sovrano italiano che hanno smorzato i facili entusiasmi dei tanti sostenitori, interni ed esteri, del partito “Forza Spread”. È chiaro come il sole che Palazzo Chigi per tenere testa all’attacco dei Commissari europei avesse un asso nella manica. Ora sappiamo qual è: si chiama Donald Trump. Ma, anche nelle più belle storie il lieto fine è preceduto dal compimento di uno scambio virtuoso di doni. Non c’è mai solo un benefattore che dà e un altro, il beneficiato, che riceve. Funziona la logica del do-ut-des e, spesso, il “des” è garantito da una cambiale che prima o dopo va all’incasso. Il “pio” Conte, in quel giorno di mezza estate alla Casa Bianca, deve aver firmato al nuovo amico Donald una paccata di cambiali a garanzia dell’aiuto richiesto. Oggi l’annuncio che il Tap si farà, nonostante gli sprovveduti grillini abbiano fatto una campagna elettorale giurando che quella condotta di gas in Puglia non sarebbe mai approdata, rappresenta il primo pagherò riscosso da Donald Trump.
Ora, i militanti a Cinque Stelle possono strillare quanto vogliono ma se il “Movimento” vuole restare alla guida del Paese dovrà rimangiarsi parecchie delle promesse incaute fatte pur di vincere la competizione elettorale. Si chiama realpolitik. E passare dalla retorica propagandistica al pragmatismo degli atti di governo è, come in antropologia, vivere la transizione alla fase adulta di una comunità, in questo caso politica, che si emancipa dal pregresso stadio infantile. In quasi tutte le culture il rito di passaggio del giovane alla maturità è celebrato dal gruppo d’appartenenza con un evento festivo. Perché mai rompere la tradizione? Vorrà dire che, in occasione della ripresa dei lavori al Tap di Melendugno, si preparerà a Luigi Di Maio e soci un memorabile Bar Mitzvah, perché per tutta la vita ricordino il momento in cui essi sono diventati adulti.
Aggiornato il 30 ottobre 2018 alle ore 10:46