Il rosso antico di Zingaretti

La scorsa domenica Nicola Zingaretti ha pronunciato il discorso di candidatura alla guida del Partito Democratico. La cornice è stata la due-giorni d’incontri a “Piazza Grande”, la manifestazione organizzata all’Ex Dogana di San Lorenzo, a Roma, per raccogliere gli oppositori del renzismo.

Avrebbe dovuto essere il giorno dell’orgoglio del popolo della sinistra che, negli ultimi anni, ha assistito alla mutazione genetica del Pd da erede del socialismo occidentale in un’altra roba che è a metà strada tra il progressismo dei multiculturalisti sul fronte dei diritti civili e la spregiudicatezza dei neo-liberisti sul piano dell’economia globale. Eppure, quella parola: “sinistra”, che in tempi passati risuonava gloriosa nelle piazze affollate dai lavoratori non si è udita nel discorso di Zingaretti. Ad essere pignoli il neo-candidato l’ha pronunciata una volta sola al minuto 42° del suo intervento durato un’ora e per di più inserita in un segmento dedicato all’autocritica per la perdita di consenso al Pd.

Probabilmente Zingaretti ha ripensato all’intervento di Massimo Cacciari ad un convegno a Roma nel lontano ottobre 1981 su “Il concetto di sinistra” nel quale il filosofo sostenne: “Sinistra è una parola maldestra. I giochi con le parole possono essere rivelatori. La ‘parola’ sinistra è segnata dal marchio dell’insufficienza, condannata da un destino inscritto nella sua stessa etimologia latina: sinisteritas significa inettitudine, goffaggine”.

Sarà pur vero, ma nel tempo storico segnato dalla forza bidimensionale della coppia assiologica Sinistra-Destra, essendo noi parte di quella correlazione auspicheremmo che una sinistra continuasse ad esserci per la semplice ragione che una destra senza il suo opposto non può esistere. Almeno fin quando il sistema politico-sociale non avrà metabolizzato l’esistenza di un altro binomio valoriale, ugualmente efficace: quello di alto/basso.

Eppure, Zingaretti ha deluso. Il suo discorso è stato, nel complesso, debole. Una sequela di vorrei-ma-non-posso di un progetto politico che ambirebbe a contrastare gli avversari ma senza spiegare come; che fissa alcune parole d’ordine ma non le sostanzia di contenuti praticabili; che propone l’alternativa ai bisogni traditi ma non offre soluzioni che non siano generiche enunciazioni di principio; che denuncia le paure indotte nella popolazione ma non ne nega l’impatto invasivo nella quotidianità delle persone comuni. La cifra della nuova Italia che Zingaretti caldeggia è quella di una società egualitaria che trae equità sociale da un’economia giusta. Intento suggestivo per realizzare il quale il neo-candidato ammette, in spregio del principio di coerenza, di dover restare nel perimetro di quel liberismo economico che retoricamente ha messo in conto al renzismo alla voce “strada sbagliata per il Pd”.

Zingaretti conferma il proposito di battersi per riportare il “modello Riace” al centro della costruzione del nuovo paradigma dell’accoglienza dei migranti. E poi ci si domanda il perché della sconnessione del sentimento popolare dal Partito Democratico? Ad ascoltarlo viene in mente il lapidario giudizio che Aldo Grasso, a proposito del “tradimento” filo-europeista di Alexis Tsipras, diede dalle colonne de “Il Corriere della Sera”, il 23 agosto 2015, sulla sinistra italiana de “l’allegra brigata Kalimera”: “…il suo destino, se continuerà a prendere lucciole per lanterne, sarà sempre la sconfitta, la perenne stasi nell’illusione demagogica”. Che è ciò che abbiamo avvertito nell’udire Zingaretti: un episodio periferico della perenne stasi nell’illusione demagogica. Paventiamo la possibilità che la sinistra evocata la scorsa domenica, incapace di leggere nei trionfi dell’anti-politica militante una più estesa, e complessa, crisi della rappresentanza nella società politica occidentale, tiri le cuoia ancor prima di aver ritrovato un’identità che non sia il fedele stenogramma di definizioni valoriali sagomate decorticando concetti inattuali. Il pretendente al trono che fu di Walter Veltroni e di Matteo Renzi dovrebbe dire chiaramente se ha in testa il modello vetero-socialista di Jeremy Corbyn. Il leader laburista non fa mistero di voler contrastare l’austerity in Gran Bretagna con soluzioni che riesumano l’economia di Stato e le nazionalizzazioni dei servizi pubblici primari, insieme all’implementazione di uno Stato sociale diffuso, una scuola pubblica gratuita e la proprietà comune dei mezzi di produzione. È questo a cui pensa Zingaretti? Se è così sappia che arriva in ritardo, visto che i grillini sul terreno della redistribuzione della ricchezza in salsa egualitarista e del pauperismo da decrescita felice sono già un bel pezzo avanti. Eppure, non sembrerebbe Corbyn il modello di Zingaretti. Nella sua perorazione domenicale non si è scorto granché di diverso dalla fallimentare “terza via” renziana, di bleariana memoria, tentata fondendo insieme istanze socialiste e soluzioni liberiste. La verità è che questo Partito Democratico segue la scia di crisi della sinistra europea, scopertasi a corto di risposte in una società che è mutata profondamente.

Per citare il solito Cacciari di un’intervista a “la Repubblica” del luglio 2013, “… Quello che ha senso oggi è ridefinire una politica di cambiamento. Le soluzioni non si collocano più a un preciso punto della scala che va da Destra a Sinistra. Le soluzioni non le trovi nell’apposita casella, le devi cercare nelle trasgressioni della topografia politica, nell’uscita ‘catastrofica’ dal piano bidimensionale… Urgente è il fare. Rivolgersi ai problemi. Chiedersi cosa è Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c’è un prontuario “di sinistra” per queste cose, perché la disposizione concettuale Destra-Sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo è multidimensionale”.

Se ha ragione lui, la manifestazione della scorsa domenica è stata l’inutile cazzeggio al ritmo di “Avanti-popolo!”, intonato da quattro amici al bar di Piazza Grande. Al massimo, l’annuncio in pompa magna dell’ennesima bega di pollaio. Nulla più.

Aggiornato il 16 ottobre 2018 alle ore 10:25