Il dato più rasserenante della domenica dei ballottaggi è la conclusione della lunga stagione elettorale. Per un po’ staremo tranquilli. Soprattutto, i leader partitici potranno dismettere i toni da campagna elettorale e applicarsi, pur dalle diverse posizioni, al bene del Paese. Comunque, il voto di ieri è stato un test di verifica dell’aria che tira. Che si è confermata essere pessima per la sinistra, stagnante tendente al plumbeo per i Cinque Stelle e decisamente buona per il centrodestra, seppure con qualche perturbazione di troppo nel cielo di Forza Italia.
I dati salienti. La destra conquista le storiche roccaforti della “Toscana rossa”: Massa, Pisa e Siena; i Cinque Stelle vincono ad Imola e ad Avellino; il centrosinistra si consola con i successi di Ancona, Brindisi, il Terzo Municipio di Roma e… Fiumicino. Che sia un mezzo terremoto politico non c’è dubbio. Fino a qualche mese fa sarebbe stato semplicemente fantascientifico ipotizzare un crollo della sinistra nei luoghi del suo maggiore radicamento. Tuttavia, la realtà che viviamo in questo tempo di crisi ci consegna a una condizione della volontà popolare più presente a se stessa e maggiormente consapevole della propria forza. Rotto il tabù del voto dato per atto di fede, è giunto il momento nel quale le urne vengono restituite alla fondamentale funzione di valutazione dell’operato dei rappresentanti dei cittadini. Il cattivo uso che le amministrazioni di centrosinistra, fino a ieri numerosissime, hanno fatto del mandato ricevuto è la causa principale dell’odierno risultato negativo. Quindi, non è il caso di esagerare con l’enfatizzazione del momento favorevole ai populisti e alla loro propaganda. Se in tanti del centrosinistra sono stati rispediti a casa è perché hanno svolto male il loro compito e non perché c’era un Matteo Salvini assatanato a urlargli contro. Questa è la bella novità rispetto a prima: chi sbaglia paga e l’ideologia non conta. È per questo che la bandiera rossa è stata ammainata dal “Palazzo pubblico” di Siena. È stato il rovinoso crollo di “Rocca Salimbeni” a travolgere i compagni senesi ben prima dell’arrivo dei “barbari” leghisti. Certo, sarebbe sciocco negare che un qualche effetto sul voto il governo giallo-blu lo abbia avuto. Almeno grazie all’ingrediente salviniano del minestrone. Gli elettori, più che le roboanti invettive contro l’universo mondo, hanno premiato la coerenza del neo-ministro dell’Interno. Di lui dicono: “Fa quello che ha promesso”. E per quanto sia inaccettabile per i vecchi e consumati politicanti, con la gente comune sembra funzioni a meraviglia. Visto che questa stagione si connota per una mutazione radicale di paradigma della politica è bene che tutti coloro i quali non l’abbiano compreso per tempo si preparino a riformarsi, se non vogliono finire sotto le macerie del cambiamento invocato dagli italiani.
Il discorso vale in particolare per la componente liberale del centrodestra. È giunto il momento che Forza Italia scelga cosa vorrà fare da grande. Non parliamo di convenienze tattiche, ma di idee e di visione del futuro. Ciò esclude la possibilità di appiattirsi sulle posizioni del vincitore di turno. Ma anche quella di sforzarsi a cercare soluzioni ancor più contraddittorie pur di marcare la distanza dall’alleato leghista. Che poi, a farla breve, si potrebbe metterla giù così: Forza Italia alle prese con la disputa ligure. Già, perché le corna del dilemma oggi si chiamano Giovanni Toti, governatore della Liguria, e Claudio Scaiola, neo-sindaco di Imperia. Il primo si dichiara favorevole a una versione solubile di Forza Italia da sciogliere nel partito unico del centrodestra che, in forza dei numeri, sarebbe a guida leghista; il secondo, ebbro della vittoria ottenuta da dissidente contro il centrodestra, da questa notte va ripetendo a chiunque lo incontri che il suo gesto di rottura contro i populisti valga d’esempio per Forza Italia e che Berlusconi si decida a rompere con Salvini magari risolvendosi a guardare a sinistra in direzione del tentativo dell’ex-ministro- piddino per caso- Carlo Calenda di dare vita a un fronte repubblicano anti-populista. Se davvero il partito azzurro dovesse avvitarsi in una tale diatriba sarebbe un disastro. Non c’è da discutere se sia più salutare consegnarsi al vincitore senza neppure provare a rimettersi in piedi o se, invece, sia meglio imbarcarsi in avventure innaturali solo perché domenica si è presi 8.136 voti a Imperia. La cittadina ligure sarà pure incantevole ma è poca roba per farne un modello d’esportazione nel resto del Paese. Anche la narrazione di una Forza Italia che fa diga al Sud appare quanto meno eccessiva. Si guardi cosa è successo ad Avellino. Nel capoluogo irpino la popolazione, ritenuto prescritto il debito di gratitudine ultradecennale dovuto al potere dell’inossidabile Ciriaco De Mita, si è rivolta ai Cinque Stelle, e non al centrodestra, per sperimentare una salutare ventata di cambiamento nell’amministrazione locale. Ci si chieda il perché piuttosto che baloccarsi nella compilazione di improbabili organigrammi di partito.
Nel frattempo, siamo giunti a ridosso della pausa estiva. In attesa che quelli al Governo facciano un po’ di errori per tornare umani, l’opposizione liberale si preoccupi di cercare la sua strada e non aspetti come Godot che i populisti diventino meno populisti per generosa concessione agli alleati moderati o che la sinistra, evocata dall’aldilà per il tramite di una seduta spiritica, stia a darle i numeri del superenalotto.
Aggiornato il 26 giugno 2018 alle ore 11:45