“Rottamazione di un italiano per bene”: cartelle come mosche tse-tse

Si può morire di tasse? Sì, Secondo Carlo Buccirosso, che quest’anno presenta al Teatro Quirino di Roma, fino al 5 dicembre, il suo divertente spettacolo Rottamazione di un italiano perbene, già andato in scena lo scorso anno alla Sala Umberto. Tra incubi, sogni scambiati per realtà e agonia vera, i cui rispettivi confini sono volutamente sovrapposti e confusi, grazie alla complicità di tutti gli attori in scena, le battute viaggiano come sciami di mosche esattoriali, che poi sono le cartelle con ingiunzione di pagamento spedite dall’Agenzia delle Entrate al contribuente-vittima. Lui, Alberto Pisapia, il protagonista che, nel dolore e nella confusione mentale di chi tende a dimenticare persino la sua identità anagrafica, è condannato a letto da una grave malattia o, forse, da un avvelenamento per tentato suicidio. La mosca tse-tse dell’incubo è un fastidioso oggetto inchiostrato e bollinato, che entra indesiderato dalle finestre e dalle porte di casa lasciate aperte, ovvero viene più spesso recapitato a mano da un’odiosissima, minuscola Mosca cocchiera con la divisa da postino. Talmente portatile, questo Mercurio minimale, da poter essere sistemato (come accade in una scena delle tante visioni oniriche da deliquio) sul ripiano di una cassettiera della camera da letto, a opera del perfido Mefistofele, Ernesto, marito della sorella della moglie di Alberto. Ed è proprio il cognato a essere identificato nel dormiveglia a subdolo facitore del cattivo destino da parte del protagonista, per metterlo di proposito nei guai avvalendosi del suo ruolo di curatore fallimentare.

Ernesto è, infatti, vissuto da Alberto (e dalla sua agguerritissima e amorevolissima figlia Viola) come il Traditore, la serpe in seno nei già turbatissimi legami familiari. Un soggetto mitologico simile a Il Corvo di Esopo che ignora la furbizia della Volpe, particolarmente interessato al patrimonio del moribondo, nonché sospetto aspirante–amante della moglie di lui, Valeria. La “robba” alla Verga riguarda, in buona sostanza, un ristorante con i conti in profondo rosso come la sua insegna, dal nome esotico di Picchio Rosso, di cui Alberto è il proprietario-gestore, rovinato dalle tasse del Mangiafuoco e mangia profitto statuale: il vero, grande e mortale nemico dei piccoli imprenditori. Ma se il cognato è il malefico profittatore che gioca per se stesso, la suocera, al contrario, essendo un funzionario del fisco, fa gli interessi del Moloch dell’Agenzia delle Entrate e, quindi, rappresenta la personificazione del suo persecutore astratto. Allo stesso modo per cui Carthago delenda est, così la povera suocera Clementina deve patire ogni forma immaginifica di supplizio e di esecuzione violenta (che va dallo strangolamento all’accoltellamento), da parte del genero impazzito di dolore per l’imminente perdita della sua amata creatura imprenditoriale. Ovviamente, come accade nella realtà, lo Stato sopravviverà a tutti i tentativi di sopprimerlo, dai paralumi fatti cadere appositamente dalla finestra, ai coltelli di cucina e ai cordoni da tenda, utilizzati per lo strangolamento immaginario dello strozzino pubblico!

Tra l’altro, oggi, grazie alla posta certificata, quell’oscura e persecutoria entità non ha nemmeno più bisogno dei postini piccini piccini, per rendersi invisibile mentre recapita ai malcapitati i propri presagi di sventura. Nella commedia, altre due figure di rilievo sono rappresentate dall’amico sacerdote e parroco e dalla cognata Agata, con una vera ossessione per la camomilla, a suo dire panacea di tutti i mali fisici e spirituali, abbinata a una passione autentica per la cucina, che propone a nipoti e sorella mentre vegliano sul letto di morte del povero Alberto. Nell’iconografia complessiva, pertanto, Agata rappresenta l’espressione pleonastica del mancato rispetto e approfondimento nei confronti della solennità del fine-vita, alla quale si contrappone l’altra figura del prelato, carnale, solida e solenne come tutte quelle dei preti di provincia, abituati dal buon senso a dare conforto al bestemmiatore e speranza nel regno di Dio a chi l’ha perduta in vita. Per di più, Agata è una sorta di versione negativa del buffone della commedia dell’arte, a causa del suo vizio di parlare perennemente a sproposito e fuori luogo in tutti i contesti, da provetta gaffeuse, forse giustificata in ciò dalla disgrazia irreparabile di essere sposata a Ernesto, avvocato rapace, fedifrago, intrigante e disonesto nell’amministrare in qualità di socio i beni e gli affari della famiglia di Alberto.

Lo spettacolo è sostenuto da un cast sempre all’altezza del ritmo elevato della comicità ispirata dal testo di Buccirosso in cui le battute, anche improvvisate, dei vari personaggi di primo e secondo piano si configurano in base a una polifonia sapientemente organizzata, che fa ricorso a una sorta di “cromatolinguistica”, in cui si sovrappongono l’italiano storpiato del fantomatico e irrealistico filippino di casa, che obbedisce e si intende in pratica solo con se stesso, abbinato alle esilaranti battute in dialetto napoletano della figlia Viola e degli altri membri della famiglia. Ma, la rottamazione è anche una storia di un amore coniugale che, come un tesoro nascosto, poggia sul fondale roccioso di un’unione coniugale apparentemente in aperto conflitto, trafitta come un S. Sebastiano dalle incessanti stilettate del marito alla moglie fedele e devota che, come il canto dell’usignolo nell’atto finale del dramma, si incarica di intonare l’ultima, soave canzone d’amore al suo compagno di vita.

Aggiornato il 26 novembre 2021 alle ore 12:27