Il ballottaggio per le Politiche in Francia dice molto a noi italiani. Il presidente da poco rieletto, Emmanuel Macron, non ha più la maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale. La coalizione macroniana – Ensemble! – ha raccolto soltanto 245 seggi. Ne sarebbero serviti 289 per assicurare una navigazione tranquilla all’inquilino dell’Eliseo. Ma se Atene piange, stavolta Sparta se la ride, e di gusto. Le due forze vincitrici del secondo turno sono le ali radicali del panorama politico transalpino: la Nouvelle union populaire écologique et sociale (Nupes) di Jean-Luc Mélenchon (131 seggi) e il Rassemblement National di Marine Le Pen (89 seggi). Un successo rotondo per le due forze di opposizione a Macron, ma a differenti gradazioni. Già, perché se per il leader del “minestrone” combinato a sinistra si è trattato di un buon risultato che tuttavia non gli consente di centrare l’obiettivo principale, la conquista della maggioranza nell’Assemblea nazionale, per Marine le Pen, è stato un trionfo. Con 89 seggi conquistati, il Rassemblement national decuplica la sua presenza nell’organismo legislativo rispetto alla legislatura appena conclusa (8 seggi). A essere pignoli, il risultato è ancor più sorprendente, se ai voti lepenisti si sommano i seggi conquistati da altre forze minori della destra: 11 in totale. In declino costante, invece, la destra neo-gollista rappresentata da Les Républicains (61 seggi). Scompare il centro (7 seggi complessivi), fagocitato da Ensemble!.
Adesso il presidente della République proverà a racimolare i voti necessari a costituire un Governo che ottenga la maggioranza in Parlamento. Presumibilmente, Macron tenterà di attrarre a sé ciò che resta del neo-gollismo. I 61 voti parlamentari dei Républicains tornerebbero utilissimi alla causa. Ma lo sarebbero per le prospettive della destra? In Francia potrebbe prodursi il medesimo schema che, negli anni passati, ha reciso le ali al sogno della destra italiana di governare il Paese con le sue proprie forze. A una sinistra moderata in difficoltà e in crisi di consensi giunge puntuale il soccorso autolesionista della destra moderata. Emmanuel Macron e Christian Jacob, presidente de Les Republicains dall’ottobre del 2019, come se fossero Matteo Renzi e Angelino Alfano? Sovente critichiamo i nostri cugini d’Oltralpe per il loro sciovinismo, ma non gli vogliamo tanto male al punto da augurargli un “Patto del Nazareno” all’ombra della Tour Eiffel. Comunque, delle mosse future di Macron discuteremo.
Ciò che conta adesso è il risultato della Le Pen, che le consentirà di costruire una seria e responsabile opposizione al sistema il cui fulcro è l’attuale presidente della Repubblica. Rassemblement National sarà la prima forza d’opposizione nell’Assemblea. Perché, a dispetto dei numeri che gli assegnano un vantaggio numerico tra le minoranze, il gruppone della sinistra variegata coagulatasi intorno a Jean-Luc Mélenchon non tarderà a implodere, mandando il messaggio radical-populista di Nupes a disperdersi in mille rivoli all’interno dell’organismo parlamentare. D’altro canto, come immaginare di poter tenere unita una coalizione che spazia dai socialisti, ai comunisti, ai massimalisti, agli ecologisti? Al contrario del Rassemblement National, di cui si potranno dire molte cose, ma non che non sia ideologicamente compatto. Il lavoro che attende Marine Le Pen è titanico. Rotto il tabù dell’impresentabilità dei candidati appartenenti alla destra radicale, tocca a lei dimostrare di avere alle spalle una classe dirigente di partito in grado di entrare nelle istituzioni e riuscire a governare la complessità con competenza e buonsenso. Sarà il primo pezzo della strada che condurrà Marine a ricandidarsi tra cinque anni all’Eliseo ma, stavolta, con concrete chance di vittoria.
Al netto del chi abbia perso o vinto la sfida dei numeri, resta, tuttavia, il dato complessivo della crisi della democrazia rappresentativa, certificata dal crollo dell’affluenza alle urne. Al secondo turno delle Politiche in Francia ha votato il 46,23 per cento degli aventi diritto, con un’astensione record del 53,77 per cento. In Italia, la scorsa settimana, al voto per le Amministrative si è recato il 54,73 per cento degli aventi diritto. Vedremo in quanti torneranno domenica prossima alle urne per i ballottaggi. La linea di tendenza, in Francia come in Italia, si va stabilizzando sulla partecipazione di un elettore su due al rito fondante della democrazia. Troppo poco per dire che le democrazie liberali godano di buona salute. Se si volesse affrontare seriamente il problema, bisognerebbe domandarsi il perché della fuga dal voto. La composizione del quadro politico in Francia ci aiuta a trovare la risposta. Il discrimine, che ha fatto la differenza nelle urne, è rappresentato dall’attenzione programmatica rivolta dai partiti alla lotta alle ingiustizie sociali e all’eccessivo distanziamento, in termini economici e sociali, di un sopra e di un sotto nella composizione del tessuto comunitario. Sebbene con programmi e prospettive diversi, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon sono due facce della stessa medaglia. Se, in iperbole, si sommassero le percentuali ottenute dagli opposti populismi, si otterrebbe un risultato sbalorditivo: la maggioranza assoluta dei votanti. Il centrosinistra moderato di Macron si ferma a meno di quattro elettori su dieci; la destra neo-gollista sotto il 7 per cento. Cosa vuol dire? Che le scelte politiche calate dall’alto, poco attente ai bisogni reali dei cittadini, soprattutto di quelli in maggiori difficoltà, incrociate con l’elitismo ideologico di Macron – che è il medesimo in Italia di Mario Draghi e del centrosinistra variamente declinato – sono state bocciate dalla maggioranza dei votanti. E non solo. Hanno suscitato una tale sfiducia nella vicinanza dello Stato alla gente comune da indurre un numero alto di cittadini a disertare le urne, in segno di rassegnazione a un potere che appare sempre più distante e incontrollabile. Con una crisi economica spaventosa alle porte che colpirà tutti in Europa, i francesi hanno comunicato all’establishment che la strada intrapresa dai governi europei nella gestione di molti dossier, tra i quali quello scottante della guerra russo-ucraina, non è percorribile. Il voto di domenica è una esplicita domanda di cambiamento. O i Governi lo comprendono oppure la profezia di Vladimir Putin sull’implosione delle democrazie europee si avvererà.
Ciò che è accaduto Oltralpe potrà verificarsi anche in Italia, dove regna un potere commissariale che non tiene in alcun conto la volontà e gli orientamenti della maggioranza del Paese. E neanche ne rispetta la storia istituzionale. Si pensi alla politica estera di Mario Draghi. Il fatto di essersi posto in rotta di collisione con Mosca contraddice una tradizionale politica di non contrapposizione frontale dell’Italia alla Russia, praticata da tutti i nostri governi anche negli anni della Guerra fredda, quando il dominus della parte orientale era l’Unione sovietica. Una linea di dialogo prudente ma coraggiosa, avviata agli inizi degli anni Sessanta e che consentì all’Italia di riconquistare un proprio peso specifico nei rapporti internazionali dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, che alcuni storiografi definiscono “l’altro Atlantismo” italiano. Protagonisti furono i leader democristiani e tra loro quell’assoluto gigante politico che è stato Amintore Fanfani. Il mitico “miracolo economico” italiano ha beneficiato anche dei rapporti tra Mosca e Roma che nei decenni Sessanta-Settanta conobbero una fase di crescita regolare, attraverso l’intensificazione degli scambi commerciali. Giusto per intenderci, nel 1968, mentre i carri armati del “Patto di Varsavia” invadevano la Cecoslovacchia per soffocare la “primavera di Praga”, la Fiat con la benedizione del nostro Governo dell’epoca faceva il suo ingresso trionfale nell’industria sovietica con la costruzione dello stabilimento a Togliatti, città sul Volga, per la produzione della “Lada”, una 124 in versione russa. Questa storia d’intelligenza politica e diplomatica tutta italiana è stata cancellata con un tratto di penna dall’attuale premier. Persona che non si è mai misurata con il consenso popolare e che nessuno ha eletto, neanche al Consiglio comunale di Roccacannuccia. Segno che può esistere una democrazia che faccia a meno dei processi democratici? Come la si vuole chiamare questa nuova forma statuale? Democrazia commissariata? O forse “democratura”, per il fatto che indipendentemente dalla volontà del popolo sovrano vi sia un gruppo di potere che staziona incontrastato nella stanza dei bottoni?
Se “democratura” non dovesse piacere, perché nell’immaginario radical-chic ci associa ai russi, potremmo sempre nominarla “democrazia in tempura”, che è un modo di cuocere le cose molto di moda in Occidente.
Aggiornato il 23 giugno 2022 alle ore 11:14