Cesare Battisti all’ultima fermata

Non sempre per l’Italia sono guai. Di tanto in tanto una buona notizia giunge al momento giusto a tirarci su il morale. Proprio nei giorni dei nervi tesi con l’Unione europea, dal Brasile arriva la notizia della concessione dell’estradizione dal Paese sudamericano del superlatitante Cesare Battisti.

I media nostrani, la maggior parte dei quali notoriamente orientati a sinistra, non hanno dato particolare rilievo all’accaduto. In fondo, rinvangare fatti di sangue del terrorismo rosso degli Anni di piombo non è in cima alla priorità dei progressisti e dei radical-chic. Quello dei “compagni che sbagliano” appartenuti al medesimo album di famiglia di molti politici che ancora oggi calcano la scena politica è un nervo scoperto, andare a sollevare la polvere che era stata debitamente occultata sotto il tappeto del conformismo del politicamente-corretto non è che faccia fare salti di gioia.

Tuttavia, Cesare Battisti è lì con la sua vita fatta di sangue e terrore e di fughe per sottrarsi alla giusta punizione. E non può essere obliato, come taluni vorrebbero. L’equilibrio cosmogonico degli archetipi impone che la Nemesi svolga il suo lavoro riparatore perché l’hybris dell’impostore che si è finto l’Angelo vendicatore dei deboli venga punita per i misfatti compiuti e la bilancia della Giustizia ritorni in pari. Cesare Battisti non è l’eroe romantico che fugge dai suoi aguzzini. Non è il perseguitato che merita di essere protetto. È un assassino che deve scontare l’ergastolo che un Tribunale della Repubblica italiana gli ha comminato riconoscendolo colpevole. Nativo di Sermoneta in provincia di Latina, il latitante Battisti non ha impiegato molto per passare dai banchi di scuola al mestiere di criminale. Prima di approdare, nel 1976, ai “Proletari Armati per il Comunismo” si crea un curriculum di tutto rispetto costellato di rapine, furti, sequestri di persona. La prima condanna da terrorista arriva dal processo per l’uccisione del gioielliere milanese Pier Luigi Torregiani, freddato davanti al suo negozio da un gruppo di fuoco dei Pac il 16 febbraio 1979. Nell’agguato rimane ferito anche il figlio quindicenne del gioielliere, Alberto, il quale, colpito alla colonna vertebrale, da quel giorno è paraplegico. Il processo ha stabilito che Battisti non prese parte all’azione terrorista, tuttavia è stato condannato a 13 anni di reclusione perché riconosciuto colpevole di concorso morale, in quanto co-ideatore e co-organizzatore dell’attentato. Non è il primo delitto a cui Battisti deve essere collegato.

Già nel 1978, con la maglia dei Pac, aveva preso parte alle uccisioni del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, a Udine il 6 giugno 1978, e dell’agente della Digos Andrea Campagna, a Milano il 19 aprile 1978. Nello stesso giorno dell’agguato a Torregiani, in attuazione di un unico piano criminoso, Battisti e i suoi sodali ammazzano Lino Sabbadin, un macellaio reo per i terroristi di essere un militante del Movimento Sociale Italiano. Per tutti gli omicidi ricondotti alla sua partecipazione al gruppo terrorista dei Pac, Battisti viene condannato, nel 1985, all’ergastolo. La sentenza sarà confermata dalla Suprema Corte di Cassazione nel 1991. Ma sarà un colpo a vuoto esploso dall’arma della giustizia perché Cesare Battisti è contumace. Nel 1981 è evaso dal carcere di Frosinone per darsi alla latitanza in giro per il mondo. Prima in Francia, dove viene accolto dalla comunità dei terroristi italiani fuggiaschi che hanno trovato riparo nel Paese d’oltralpe protetti dalla famigerata “Dottrina Mitterrand”, dal nome del presidente socialista francese che aveva sancito il principio in base al quale non si dovesse concedere l’estradizione ad imputati o condannati per “atti di natura violenta ma d’ispirazione politica” diretti contro Stati sovrani, ad eccezione ovviamente di quello francese.

Ma la pacchia della latitanza dorata finisce quando l’ombrello normativo che aveva protetto i terroristi comincia a chiudersi. Per Battisti si materializza lo spettro del pronunciamento definitivo del Consiglio di Stato francese in favore dell’estradizione richiesta dal Governo italiano. Ma la lunga mano della giustizia non fa in tempo ad agguantare il latitante che lui sguscia via come un’anguilla, ricomparendo d’incanto in Brasile. È il 2004. Anche nel Paese Sudamericano continua il tira-e-molla con le autorità italiane che lo vogliono. Ma i “compagni” fanno muro e difendono il feroce assassino come fosse la più innocente delle vittime di una giustizia borghese e vendicativa. Tale è la potenza della lobby dei terroristi in Brasile che il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, l’ex-sindacalista, indomito comunista con la passione per l’alcool e le mazzette, nell’ultimo giorno del suo mandato presidenziale, con i bagagli già pronti a lasciare il Palácio da Alvorada, il 31 dicembre 2010, rigetta la richiesta di estradizione presentata dall’Italia e concede a Battisti il diritto di asilo e il visto permanente. In arresto dal 2007 a Rio de Janeiro, il 9 giugno 2011 il Supremo Tribunal Federal ne decreta l’immediata scarcerazione. Battisti, forte delle più alte coperture istituzionali, si tuffa nell’attività di scrittore di gialli nella tranquillità nel suo buen retiro a Cananeia, una località balneare sul litorale paulista. Ma la ruota della fortuna gira e accade che anche in Brasile arrivi il vento populista. Alle ultime elezioni presidenziali la spunta il candidato della destra radicale, Jair Bolsonaro. Ex-capitano dell’Esercito ed uomo d’ordine, Bolsonaro inserisce nel programma politico la promessa all’Italia di consegnare il terrorista Cesare Battisti. È l’ottobre di quest’anno. Ma soltanto in questi giorni gli eventi prendono la giusta piega. Il giudice del Supremo tribunale federale Luis Fux ordina l’arresto di Cesare Battisti e, contestualmente, il presidente brasiliano uscente, Michel Temer, firma il decreto di estradizione. Dal 15 dicembre un aereo militare italiano è in attesa in un hangar dell’aeroporto internazionale di Guarulhos, nei pressi di San Paolo del Brasile, pronto a riportare il latitante Battisti in Italia. Se ciò non è ancora avvenuto è perché il pluriomicida, esperto in fughe rocambolesche, avendo fiutato una brutta aria con la vittoria di Bolsonaro, se l’è data a gambe.

Ormai il cerchio si stringe, è solo questione di tempo ma stavolta ce la facciamo a portare la canaglia assassina dov’è giusto che stia: in una patria galera. Soltanto così tutte le sue vittime troveranno quella pace che attendono invano da quarant’anni. E il mondo, senza un Cesare Battisti in circolazione, sarà senz’altro un posto migliore.

Aggiornato il 19 dicembre 2018 alle ore 11:28