Quando i talk-show finiscono all’osteria

C’era una volta, tanti anni fa, (la prima) Radio Radicale (grazie Marco, grazie Emma e a tutti voi).Ve la ricordate? Era una sorta di microfono aperto, un telefono amico, per dire, dove ognuno poteva gridarci dentro la sua rabbia, il suo malessere, la sua indignazione, grande o piccola che fosse. Poi questa importantissima radio è cambiata, migliorata, strutturata, indispensabile, come sappiamo. È rimasta però la prima, la suddetta, tale e quale, saltando un gradino e passando alla tivù. È diventata l’oggetto del desiderio quotidiano della rissa politica, ossessiva, instancabile. Quel tipo primitivo di intervento, più che giustificabile allora nel silenzio dell’ufficialità e con l’esplosione delle radio libere, si è oggi stabilizzato, ristrutturato, spalmato, diventando il logos, la storytelling, la voce pressoché unanime dei talk-show, di tutti o quasi.

Fateci caso, con un po’ di pazienza, vivaddio, anche perché i talk invadono, opprimono, si espandono, si sentono e si vedono. Soprattutto si vedono e si sentono i partecipanti “politici” - parola messa fra virgolette, ça va sans dire - che hanno portato nelle nostre case la maleducazione di Stato. Perché di Stato? Perché emessa da bocche di persone in genere elette dal popolo e, dunque, di costui rappresentanti: lo Stato, insomma. Da anni ormai seguire un talk-show significa, innanzitutto, ritornare alle antiche osterie, ascoltare urla e insulti fra partecipanti che raramente vengono placati dal conduttore, speranzoso di audience da lite. Nel contempo significa, purtroppo per i volonterosi gridatori da tivù, la rarità di un cambiamento di idea nello spettatore, nel senso che, terminato il talk-show, le cose e le idee e pure le scelte restano quelle di prima, se non peggio. Finita la festa gabbato lo santo, per dire.

Umilmente, vorremmo sottolineare qualche responsabilità di chi conduce questo genere di spettacoli, pur conoscendone la difficoltà. Eppure, qualche colpa ci deve essere se questo andazzo non accenna a diminuire, anche perché la gestione dello spettacolo stesso non è di tipo assembleare ma riferibile comunque a chi lo conduce e ha in mano l’arma del microfono. Si è così diffusa una sorta di malattia mortale proprio per quella politica cui i talk-show sono dedicati, un morbo contagioso che non si limita solo alla tivù ma alla società nel suo complesso (non alla radio dove il discorso cambia radicalmente, è un medium cha fa storia a sé, e non a caso Fiorello nella sua “Edicola” vezzeggia la radio mentre personaggi tipicamente radiofonici come Cruciani e Diaco non soltanto mietono successi ma, pure, più che meritati premi). Ad entrambi, per fare un esempio, è più che lecito, lecitissimo, stuzzicare e provocare la casta (nella speranza che ne cali l’uso e l’abuso) proprio perché non ne coltivano alcun interesse e, figuriamoci, qualsiasi pretesa di fare lezione di bon ton, alias politicamente corretto. Lo stesso non si può dire per altri che, pure, sono di altissima professionalità ma che, come la brava Lilli Gruber dell’altra sera, si è sentita dare della “casta” da un Pier Ferdinando Casini, peraltro in forma smagliante tanto da criticare un certo giovanilismo-populismo renziano anche sui costi della politica, giacché, ha concluso con sorridente coraggio, “la democrazia costa, dappertutto, e dove non c’è, i costi sono ancora più alti per la gente, si tratta di contenerli”.

Realtà che tutti più o meno sanno, ma che la demagogia d’oggidì imposta dal grillismo che rinfaccia Pinochet e serial killers, sta invadendo lo spazio della discussione. Discussione? Ma quale? Ma dove? E, soprattutto, perché? Fate voi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03