Giudici: no ai test psicoattitudinali (per ora)

Ritorniamo su questo argomento (per ora rinviato, speriamo non sine die) – perché non sembra che voci accoglienti, ma anzi addirittura opposte a questo dettaglio della riforma della giustizia, si siano levate da parte di molti dell’Associazione nazionale magistrati e associati.

Naturalmente questo è comprensibile in un Paese dove la giustizia, per dirla con mia nonna vecchia partigiana, “ne ha fatte di cotte e di crude”, cambiando addirittura una Repubblica (la Prima).

Era quasi ovvio che alla proposta di verifica psicoattitudinale si levassero proteste abbastanza alte, forse perché il tema si trova ancora in bozza. Eppure questi alti lai contro una decisione che è valida per tutti, a cominciare per esempio dai poliziotti, contribuiscono a gettare legna sul fuoco dello scontro Governo-magistratura.

Intendiamoci, questa lotta (perché di questo si tratta) è in atto da decenni e non pare debba spegnersi non tanto o non soltanto per il freno di un Governo, quanto e soprattutto perché la giustizia (da noi e soltanto da noi) ritiene la sua (indispensabile) indipendenza al di là e al di sopra di qualsiasi inframmettenza del Governo, se non addirittura del Parlamento.

È difatti in una simile logica che si inquadra (e letteralmente trascriviamo) la secca ed eloquente risposta dell’Anm a proposito di quanto andiamo scrivendo: “Sembra evidente la volontà di riproporre uno scontro con la magistratura, di riaccendere un clima conflittuale, gravemente dannoso per i cittadini”. Rieccoci dunque col clima conflittuale.

La logica sembra dunque quella di lasciare le cose come sono in una magistratura o in una giustizia (di cui un qualsiasi bambino vede abbagli e limiti) secondo la massima latina del “quieta non movere” che viene spesso citata in alto loco ma che in realtà contiene un errore vistoso con quella aggettivazione di “quieta” che tale non è. Basti pensare agli innocenti mandati in galera e poi lasciati andare dopo anni.

E, se si vuole un esempio, è sotto gli occhi di tutti (lasciamo perdere Mani pulite per via dei tempi ma non dell’importanza storica) e guardiamo alla vicenda di Silvio Berlusconi, leader e artefice della Seconda Repubblica.

Abbandonando in prima fila il reato di corruzione-finanziamento illecito, che ha costituito la chiave d’ingresso per mandare a casa e molti in galera della Prima Repubblica (con tanti innocenti), ciò che ha contraddistinto la discesa in campo del leader di Arcore è stata innanzitutto la sua vera e propria persecuzione giudiziaria.

Non stiamo qui ad enumerare l’incredibile montagna di reati, peraltro noti, e le repliche di Berlusconi quasi sempre ritenute dai giudici come una intollerabile inframmettenza della politica, cioè del palazzo, ovvero di un “personaggio” e del suo Governo, nell’opera “sacrosanta” di pm e magistrati vari. E, va da sé, i non pochi processi paralleli.

Sta di fatto, comunque, che a uno come Pier Camillo Davigo, protagonista del famoso Pool, qualsiasi ipotesi di “riforma”, figuriamoci questa che dovrebbe contenere la quasi ovvia decisione che chi sbaglia paga (da far valere anche per i giudici) costituisce una sorta di attentato alla immarcescibile indipendenza (leggi inviolabilità) giudiziaria. Proprio Davigo, parlando tempo fa di prosciolti e di assolti, ha ricordato la solenne e funebre sua considerazione: “Non esistono innocenti ma solo colpevoli di cui non si è dimostrata la colpevolezza”.

Davvero un bell’articolo, anzi una premessa con cui iniziare il nuovo Codice.

Aggiornato il 07 marzo 2024 alle ore 09:25