“Sì”, “No”, Parlamento, referendum, rinvii

Non sarà Valerio Onida, che pure è uno dei nostri migliori costituzionalisti, a mandare a carte quarantotto il referendum. È troppo tardi. E non credo di essere l’unico a chiedersi che cosa ne direbbe Marco Pannella degli ipotetici, nonché ribaditi, rinvii del referendum. Chissà. Di certo si sa, però, che non sono più i referendum di una volta anche e soprattutto perché leader come Marco ci mancano e mancano. Non solo lui, si capisce. Solo che gente come Marco e altri autentici capi politici, mettiamoci i Craxi, i Napolitano, i De Mita e gli Altissimo non soltanto avevano un sacro rispetto per il significato autenticamente “popolare” del referendum - inteso come chiamata del popolo, ineludibile e inscalfibile - ma per il parallelo, non meno sacro, rispetto del Parlamento. Che oggi, ribadiamolo, è sceso a un basso livello insieme anche a certi ministri e diversi capetti o ex che hanno pensato e detto che un rinvio non ci starebbe così male. Ma oggi Montecitorio è un’altra cosa, non tanto o soltanto perché al suo interno non si vedono i veri leader quanto, soprattutto, per l’assenza di una maggioranza degna di questo nome.

Il fatto è, tuttavia, che già il leggendario Winston Churchill, durante una seduta confusa e inconcludente del Parlamento inglese, padre di tutti gli altri, al deputato che gli sussurrava all’orecchio che c’erano troppi cretini dentro quel democratico sinedrio, commentò: “Meglio così, vuol dire che la democrazia funziona, se è vero come è vero che il nostro Paese è pieno di cretini: anche loro hanno diritto ad una rappresentanza qui dentro”. In fondo il ragionamento tiene, al di là delle battute. Fatto sta che, ancora nella stessa Inghilterra, ecco che un ordine terzo, la magistratura, invita, anzi obbliga il Parlamento a prendere una decisione sulla Brexit della quale il popolo britannico ha fatto strame tramite, per l’appunto, la sua chiamata al voto referendario. Balance of power, oppure prevaricazione antipopolare? Anche su questo mi manca il parere di Marco al quale, tuttavia, non chiederei mai oggi se voterebbe “Sì” o “No”.

Leggendo infatti il simpatico “pezzo” dell’amico Mauro Mellini, che di Pannella fu successore o qualcosa del genere, sono rimasto colpito da un’acuta capacità di cogliere i limiti sia dell’una che dell’altra sponda, il che me lo rende ancora più amico non foss’altro perché è un votante dichiaratamente per il “No”. Le sue critiche sono per dir così ecumeniche, non per calcolo, anzi, ma per la prontezza nel cogliere i difetti vistosi di due nemici che se le cantano e se le suonano tutto il giorno, con un particolare appunto all’armata Brancaleone del “No” che è già sicura di avere vinto. Il che non è mai un bel vedere e, soprattutto, mostrarsi all’avversario che non solo o non tanto la pensa allo stesso modo ma ha dalla sua parte, oltre alla potenza del Premier, una consistente fetta di indecisi ai quali, come osserva l’articolo, vanno aggiunti gli incerti del “Ni” inguattati nel centrodestra o Forza Italia che dir si voglia.

A ben vedere, lo stesso Cavaliere è rimasto una volta sul pero e un’altra sul melo, in ascolto soprattutto dei capi della sua azienda. E lo si capisce e lo si comprende, anche se in queste ore sembra che la marcia dell’assalto contro Matteo Renzi e il suo governo la suoni pure lui, pur pensando al dopo. E fa bene, intendiamoci. Del resto, questo referendum, scritto peraltro coi piedi ma condiviso nel “Sì” dai tanti sciuri - come a Milano si chiamano i signori ricchi, tipo Moratti, Micheli, ecc. - altro non finirà con l’essere ciò che è sempre stato: o rimane Renzi o lo si manda a casa. Tertium non datur. Anche per via delle malauguratissime profezie renziane d’antan, personalizzanti una prova nella convinzione di averla già vinta. Pentitosi, è corso ai ripari. Ma se perde, è fuori d’ogni dubbio che tantissimi diranno, anche al suo interno: avanti un altro.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:00