Quella che pochi giorni fa, all’indomani della conferenza stampa del governo, avevamo definito manovra di galleggiamento, oggi a carte scoperte in Senato rischia di rivelarsi, testo ufficiale alla mano, una manovra di affondamento. Si apre il sipario sui numeri, quelli veri, e si chiude il sipario sul balletto di cifre e sui trucchetti contabili di questi giorni.
Dunque vediamoli, i numeri riportati nelle tabelle che delineano gli effetti finanziari della legge di stabilità sul bilancio dello Stato. Nel 2014 la manovra vale complessivamente circa 12,1 miliardi: ben 9,45 miliardi di maggiori spese e solo 2,64 miliardi di minori entrate. Da finanziare con 11,4 miliardi, di cui solo 4,2 miliardi di minori spese e ben 7,2 miliardi di maggiori entrate. Quindi, ancora una volta, esattamente come le tanto criticate manovre di Monti e Tremonti, anziché basarsi su coraggiosi tagli alla spesa, il rapporto appare fortemente sbilanciato sul lato delle entrate (anche se come vedremo non si tratta solo di tasse) nella misura di 2/3 delle coperture.
Ma qualche precisazione va fatta: bisogna considerare infatti che non tutte le maggiori spese messe a bilancio sono spesa pubblica e non tutte le maggiori entrate sono aumenti di tasse, così come alle minori entrate bisogna aggiungere alcuni sgravi fiscali e alle minori spese sottrarre delle riduzioni di crediti di imposta. Per esempio, la riduzione di 500 milioni dei contributi sociali a carico delle imprese figura tra le maggiori spese, mentre in pratica si tratta di sgravi fiscali, così come il miliardo di maggiori entrate da dismissioni di immobili e rivalutazione delle partecipazioni non sono tasse, ma nemmeno tagli alla spesa.
Apportati i suddetti aggiustamenti, la sostanza non cambia. Le minori entrate definibili come sgravi fiscali sono pari a circa 3,8 miliardi, mentre 7,9 miliardi, oltre il doppio, sono definibili come vera e propria spesa pubblica. Si tratta dunque di una manovra che aumenta la spesa pubblica per un ammontare doppio rispetto alle risorse liberate a favore delle famiglie e delle imprese. Così come le coperture sono costituite da maggiori entrate per 7,2 miliardi (di cui tasse vere e proprie 2,5, esclusa però la Tasi), un importo quasi doppio rispetto ai reali risparmi di spesa di circa 3,8 miliardi.
Ma cerchiamo di capire quale sarà il saldo reale per i cittadini in termini di tasse. È confermato l’incremento della detrazione Irpef sui redditi da lavoro dipendente (1,5 miliardi), a cui si aggiunge circa un miliardo trasferito dallo Stato ai Comuni per alleggerire la nuova Service Tax (in pratica l’ammontare della maggiorazione Tares, che verrà abolita), per un totale di 2,5 miliardi di sgravi fiscali. A fronte di queste riduzioni, tuttavia, si contano aumenti di tasse per almeno 1,9 miliardi: l’incremento dell’imposta di bollo sul risparmio (940 milioni), la riduzione delle agevolazioni fiscali (500 milioni), il ritorno della tassazione Irpef sugli immobili sfitti o in comodato gratuito ai figli nello stesso Comune (500 milioni), e qualche decina di milioni di addizionali Irpef regionali e comunali.
Per non parlare della nuova Tasi, che nelle tabelle ufficiali contenute nel testo depositato al Senato si conferma a tutti gli effetti una Imu mascherata: per l’abolizione dell’Imu sulla prima casa infatti viene messa a bilancio una perdita di gettito per i Comuni di 3,764 miliardi. Esattamente lo stesso gettito (3,764 miliardi) arriverà dalla Tasi (ad aliquota standard dell’1 per mille, quindi ancora suscettibile di maggiorazioni da parte dei Comuni). Ma con la Tasi aumenterà anche la tassazione sulle abitazioni diverse da quelle principali. Confedilizia ha stimato che tra abitazioni principali e secondarie l’aggravio della Tasi rispetto alla vecchia Imu si collocherà tra i 2,1 miliardi (aliquota standard dell’1 per mille) e i 7,5 miliardi (aliquota massima del 2,5 per mille).
Dipenderà dai Comuni, ma sommando tutti gli effetti finanziari di queste misure, possiamo già dire oggi che gli italiani nel 2014 pagheranno più tasse, e non meno tasse, rispetto al 2013, e probabilmente qualcosina in più anche rispetto al 2012. Anche perché non va dimenticato l’aumento dell’aliquota Iva dal 21 al 22% scattato il primo ottobre: 3 miliardi in più rispetto al 2013 e 4 rispetto al 2012. Insomma, il premier Letta ha fatto bene a ricordare che “14 euro in più in busta paga non c’è scritto da nessuna parte nella manovra”. In effetti, è improbabile che ci accorgeremo di un solo euro in più.
Come se non bastasse, sugli anni 2015-2016 incombe il rischio concreto di una doppia stangata: sulla prima casa, perché l’aliquota massima Tasi del 2,5 per mille vale solo per il 2014, mentre dal 2015 l’1 per mille standard potrà sommarsi all’aliquota massima della vecchia Imu (6 per mille); e sull’Irpef. La legge di stabilità infatti include una nuova pericolosissima “clausola di salvaguardia” (lo stesso diabolico meccanismo per cui dal primo ottobre è scattato l’ulteriore aumento Iva). Ebbene, se entro il 15 gennaio 2015 la spending review non darà i risultati sperati (e visti i precedenti, non c’è da essere troppo ottimisti), scatteranno tagli alle agevolazioni fiscali di 3 e 7 miliardi.
La massima irresponsabilità al governo: con questa tagliole automatiche si spostano in avanti nel tempo misure politicamente costose come l’aumento di una tassa, in modo che chiunque governi nel momento in cui scattano possa scaricare sui predecessori ogni responsabilità (esattamente come accaduto con l’aumento dell’Iva), al tempo stesso demotivando i governi dal realizzare quelle azioni virtuose, come i tagli alla spesa pubblica, che dovrebbero scongiurare la misura di salvaguardia.
In pratica, con l’inganno delle “clausole di salvaguardia” i tagli alla spesa diventano un mero auspicio, mentre gli aumenti di tasse sono la decisione vera, ma rinviata nel tempo per non assumersene la responsabilità politica. Perché non invertire la logica? Se la spending review non produce i risultati sperati, siano tagli alla spesa a scattare in modo lineare, e non aumenti di aliquote e tagli alle agevolazioni fiscali. Bisogna dire che non va molto meglio alle imprese: tra riduzione dei contributi Inail (500 milioni), deduzioni Irap per i nuovi lavoratori a tempo indeterminato (36 milioni), restituzione del contributo Aspi (70 milioni), deducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali fino al 20% (475 milioni) e blocco dell’aumento Iva per le cooperative sociali (130 milioni), gli sgravi fiscali nel 2014 ammontano a circa 1,2 miliardi, anche se nelle pieghe della manovra si nascondono consistenti riduzioni di crediti di imposta e altri vantaggi fiscali.
Dunque, altro che modifiche purché “a saldi invariati”, il problema di questa legge di stabilità sono proprio i saldi. E le “clausole di salvaguardia”. Con questa manovra i ministri del Pdl che si proclamano “sentinelle anti-tasse” non hanno alternative: o si dimettono dal governo o si dimettono da sentinelle. Legittimo sostenere il governo Letta-Alfano a qualsiasi prezzo, qualsiasi cosa faccia (o non faccia), in nome della “stabilità”. Ma è incontrovertibile che questa legge di stabilità non riduce le tasse, le aumenta. Basta esserne consapevoli e metterci la faccia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:49