Nella fisica classica l’accelerazione si contrappone di solito all’inerzia: se la prima suggerisce un’idea di progresso, che nel suo sviluppo non ammette “pause, vuoti, spazi bianchi”, ma “consuma tempo e spazio, e non si consente pause o intervalli”, la seconda è invece una metafora del non agire, del non intervenire, o se vogliamo, come avrebbe detto Bartleby, lo scrivano di Melville, del “preferire di no”, e dunque una forma di passività e d’inazione.
Il sociologo tedesco Hartmut Rosa pensa che l’esperienza dell’inerzia nasca e s’intensifichi quando i cambiamenti e le dinamiche nella vita non vengono più vissuti come elementi di una catena “dotata di senso e direzione, cioè come elementi di progresso, ma come un cambiamento senza direzione e frenetico”. L’inerzia si può tuttavia manifestare anche nella ripetizione e Geert Lovink, uno studioso olandese delle culture di rete, osserva che, nella società informatizzata di oggi, “siamo intrappolati in una ripetizione in stile Truman Show del presente perpetuo, ci affanniamo nel micro-caos della presenza degli altri on-line”.
Lo stesso Lovink si sofferma poi su un riflesso non marginale di questa condizione, descrivendolo così: “Più cerco di essere una persona reale, più rimango intrappolata nella simulazione di me stessa (…) comunico e condivido solo per ricordare alle persone che esisto. Anzi per ricordare a me stessa che esisto”.
Per ricordare agli altri e a se stessi di esistere come individui singoli e differenziati molti ricorrono al metodo antico di tatuarsi parti del corpo o di apporvi appendici metalliche, nella convinzione che questo tipo di marcature costituisca un’espressione della loro personalità. In realtà così facendo tendono piuttosto a manifestare l’assenza di tratti distintivi interiori e autentici assecondando per inerzia mode e costumi che hanno fatto breccia tra i più grazie al piacere della condivisione e della ripetizione, un piacere non molto diverso da quello che per Freud trovava soddisfazione nella “coazione e ripetere”.
Siamo infatti sempre più immersi in una società che sollecita questo tipo di piaceri e li usa per controllare l’effettiva adesione delle persone ai suoi modelli culturali. Un simile processo non si basa su alcun tipo di coercizione, ma si fonda su un lasciarsi andare, su quel moto incessantemente auto-liberatorio che era stato annunciato già da Herbert Marcuse quando parlava di “desublimazione repressiva”. A questo proposito, il filosofo sud-coreano Byung-Chul Han, in Psicopolitica, osserva che: “Il potere intelligente si plasma sulla psiche, invece di disciplinarla o di sottoporla a obblighi e divieti (…). Non ci impone alcun silenzio. Piuttosto, ci invita di continuo a comunicare e a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni, desideri e preferenze, e a raccontare la nostra vita (…). La crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con un potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta”.
Maurizio Ciampa sembra dunque concordare con la conclusione che ricava da questo quadro generale Günther Anders, il filosofo tedesco che pare aver colto con un certo anticipo una tendenza delle nostre società che si è poi trasformata in un dato tangibile: la libertà degli individui del XX secolo sta andando in fumo proprio in virtù dell’inerzia e della passività che caratterizza sempre più il nostro atteggiamento verso la società e verso noi stessi. Si tratta purtroppo di una passività che produce talora effetti estremi d’isolamento e d’inazione: così, per esempio, negli ultimi decenni, prima in Giappone e poi nella parte restante del mondo occidentale, gli hikikomori scelgono di vivere in disparte recludendosi nelle loro stanze come in fortezze, animati solo dall’irriducibile “volontà di non essere e non fare”.
Un simile trincerarsi nella propria fortezza vuota può costituire il contrappasso simbolico di un’assenza di confini e di regole che possono avere effetti spaesanti. Massimo Recalcati, in Le nuove malinconie, osserva che: “L’assenza di argini e confini propria della libertà del turboconsumatore ipermoderno si è via via tradotta in un sentimento diffuso di angoscia provocato dalla perdita di punti di riferimento simbolici” facendo così “sorgere una nuova domanda di protezione e di sicurezza”, e può darsi che anche l’inazione e l’assenza d’interazione col mondo esterno degli hikikomori siano una sorta di reazione estrema a questa condizione, anch’essa inerziale, di turboconsumatori cronici cui gran parte dell’umanità si trova ineludibilmente ridotta. La conseguenza è che in molti percepiscono il rischio insito nell’adottare mezze misure e tra la prospettiva di lasciarsi completamente risucchiare in una dimensione omologata estroversa, che cerca di trovare supporti alla propria individuazione in rituali di massa, piuttosto che nell’assumere una postura monadica e introversa, trovano la seconda più autentica e appropriata per rappresentare la propria essenza individuale e salvaguardarne la possibilità.
Del resto, questa nuova forma d’isolamento ricorda per certi versi quella dei monaci che agli albori dell’era cristiana vivevano in eremitaggio, mentre sotto un altro profilo evoca la condizione malinconica in cui gran parte dell’umanità ha vissuto, controvoglia e non per scelta, buona parte dei suoi giorni in diverse età della vita. Una volta si pensava che questa condizione psicologica dipendesse dai movimenti della bile nera prodotta dalla milza: da Ippocrate (IV sec. a.C.) a Galeno (II sec. d.C.), fino al Rinascimento e oltre, “la bile nera ha occupato medici e filosofi, teologi e astrologi, e artisti”. Le arti figurative recano di tale condizione eloquenti testimonianze e Ciampa ricorda che “la rappresentazione esemplare dello stato malinconico è una figura femminile dalla testa reclina, piegata da un’apparente apatia” e con “lo sguardo nel vuoto”, una figura che trova un’esecuzione significativa in Melencolia I, la notissima incisione di Albrecht Dürer, del 1514, ma ancora prima in Il Cristo dei dolori (1493), un’incisione con cui Dürer comincia a esplorare l’universo malinconico.
In quest’opera, in cui Cristo è appoggiato su una mano, come in tutte le rappresentazioni della malinconia, Ciampa ravvisa un dubbio e una perplessità più profondi rispetto all’opera successiva, quasi che il Cristo nel sepolcro fosse in attesa di una resurrezione che tarda a intervenire. Recando in sé i segni della Passione, siamo di fronte a un Cristo “pensoso”, adombrato da un’idea di fallimento, come “pensosa” è in genere la figura femminile che rappresenta la malinconia.
Se nei Problemata XXX attribuiti ad Aristotele questa condizione saturnina dell’anima umana era già vista come espressione dell’uomo di genio, fu però Marsilio Ficino a dare forma definitiva quest’associazione. Ma tra quella malinconia storica e quella dei nostri tempi Ciampa ravvisa una tonalità diversa, perché la nuova malinconia “non sta dentro i confini della vita individuale, quei confini che appaiono ormai labili, mal tracciati. La nuova malinconia ha natura sociale, nasce dalle viscere di questo tempo, e solo lì la possiamo riconoscere e identificare”.
Si potrebbe arrivare a considerare la depressione oggi socialmente diffusa (in Italia, per esempio, circa il 7 per cento della popolazione fa uso di antidepressivi) come l’erede sociale di quella malinconia così tipicamente individuale di cui parlavano Aristotele e Marsilio Ficino, ma essa è anche il segnale di un mutamento antropologico, uno tra molti altri non meno significativi. A questo proposito Ciampa ricorda che Christofer Boilas, nel suo L’età dello smarrimento, mette in luce la difficoltà di riconoscere per quello che è un “disturbo della collettività”, forse perché con il pericolo di avere a che fare con epidemie di sofferenza mentale incute un tipo particolare di timore e sgomento che può sembrare puerile o delirante confessare. Certo è che il modo in cui viene vissuta e affrontata questa nuova forma di melanconia sembra sempre più distante da quella che di cui si potevano trovare tracce nello Spleen di Baudelaire o “nella stanchezza che segna i personaggi di Flaubert, nei nati morti delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e in molta letteratura russa dell’Ottocento, a partire da Oblomov di Gončarov”.
Anche l’assidua frequentazione di simili capolavori letterari sembra sempre più improbabile e dilazionata: i ritmi lenti che la loro lettura richiede risultano inadeguati a quelli frammentati delle nostre giornate tanto che sembriamo ormai quasi tutti, chi più chi meno, “esseri soppiantati, privi di riparo, totalmente esposti”, incapaci di padroneggiare “le nostre stesse vite. Siamo entrati nell’età dello “smarrimento” e ora avanziamo lungo le sue linee spezzate”.
La nostra andatura impacciata pare talvolta districarsi con rassegnazione tra i resti di ricorrenti catastrofi e come fossimo colti da un’indifferenza ovattata stentiamo a procedere in una palude di fango simile a quella in cui Dante aveva collocato gli accidiosi. Come loro, sembriamo inetti a pronunciare parole piene, in grado di testimoniare un senso, e ci esprimiamo mediante sospiri, lamenti e imprecazioni. Così, anche la vocazione a parlare con Dio è preda d’un oblio distratto, mentre il parlare con i nostri simili sembra produrre sempre più delle frasi sorde, prive di risonanze, simili a uno sferragliare di parole vuote.
In questo scenario verrebbe voglia di assecondare il suggerimento che, attraverso il suo Palomar, Italo Calvino ci invia: bisognerebbe imparare a far finta di esseri morti, perché questa gli pare l’opzione più ragionevole una volta preso atto che “tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima”. Imparare a essere morti significa infatti cancellare “la macchia di inquietudine che è la nostra presenza” e Ciampa interpreta anche questa scelta come l’effetto ultimo di un desiderio d’inerzia e di una “serenità impassibile”.
Forse, quando Franz Kafka scrisse a Milena Jesenkà, nel 1922, che una ferita si era aperta in lui “per la prima volta in una lunga notte”, alludeva a quel tipo di ferita che era in grado di dischiudere la sua anima al desiderio muto di una analoga impassibile serenità, non molto diversa da quella che consentiva anche a Valentin Brù, protagonista de La Domenica della vita di Raymond Queneau, di osservare, come fosse nel centro vuoto di un cosmo inerte, che nulla più si muoveva, non avanzava né si arrestava.
E forse è questa stessa assenza di accelerazioni e cambiamenti, questa stessa inerzia che racchiude il riferimento alla regola aurea che, nel Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, l’angelo Cassiel invita l’altro angelo Daniel a seguire: “Nient’altro che osservare, raccogliere, testimoniare, custodire! Restare spiriti! Rimanere a distanza! Restare nella parola!”.
Ma come è possibile adottare la strategia indicata dall’angelo Cassiel quando tutto intorno sembra invece ruotare in un vortice minaccioso di cieche gesta scellerate, d’infamie perpetrate in preda all’inerzia fatale di un male ottuso?
Forse bisognerebbe imparare a opporre a una simile inerzia, a un tempo feroce e banale, una resistenza dimessa e sottile, che in sintonia col suggerimento di Cassiel sia invece capace di ascoltare, e fare qualcosa d’idealmente simile a ciò che, in condizioni ben più estreme e tragiche, faceva Giuliana Tedeschi, una giovane donna che tra il 1944 e il 1945 era stata internata nel campo di Birkenau. Questa donna racconta la sua strategia di sopravvivenza in un libro, C'è un punto sulla terra, che venne pubblicato molti anni dopo la sua liberazione. Alla morte quotidianamente incombente Giuliana riuscì a resistere “in un modo semplice, ma stupefacente, fischiando interi brani di Mozart. Un Mozart in veste dimessa, la sua esecuzione inevitabilmente sommaria”, ma sufficiente a lasciare dischiuso il filo di un senso sotto il cielo, talora persino azzurro e luminoso, che pur poteva incredibilmente continuare a vedere sopra di sé anche dal suo girone infernale.
Aggiornato il 05 dicembre 2025 alle ore 14:26
