“Megalopolis”, la summa utopica di Francis Ford Coppola

Un film stupendo. Che difficilmente rientrerà di quei 120 milioni di dollari che Francis Ford Coppola dice di avere dovuto metterci di persona, minando persino la possibile eredità futura dei propri figli. Che lui sostiene non abbiano comunque bisogno (in questi casi vanno sempre comunque sentiti gli interessati, ndr). Sia come sia, cominciamo a dire che la pellicola, che si ispira ai racconti di H. G. Wells, presenta una serie di piccoli e grandi cosiddetti camei. Tipo rimettere a recitare insieme Dustin Hoffman e Jon Voight a più di 50 anni dall’uscita di Un uomo da marciapiede. Poi va ammesso che ogni architetto con ambizioni esistenziali e politiche dovrebbe vedere il film per immedesimarci in Cesar Catilina, il premio Nobel immaginario per l’invenzione di Megalon, una sostanza che insieme ricrea la materia e, forse, contribuisce a fermare il tempo. Uscire dagli assi cartesiani del tempo e dello spazio è quindi l’ambizione che muove le ardite scelte di Catilina, contrastato invece dalle pretese conservatrici di Cicerone, major della New Rome, che sembra una New York precipitata nei tempi e nei costumi della “old Rome” pre-imperiale.

E non può mancare un banchiere, Crasso, proprio Jon Voight, che crede di controllare tutto e che invece diventa una preda per i suoi più fidati collaboratori. Ci sono nelle pirotecniche scene e nell’onirica sceneggiatura molte allusioni alla America odierna, e se Donald Trump sembra assente, non così si direbbe per una figura analoga a quella di Elon Musk. Che potrebbe ricordare proprio l’architetto di Megalon, sesso, droga e Rock’n’Roll inclusi. Poi c’è un’allusione al #Metoo più deteriore, quello delle false accuse sessuali ai potenti per ricattarli economicamente, e insomma un bello zibaldone di ciò che si vive da trent’anni a questa parte. Immaginario malato compreso. Il tutto in un’atmosfera onirica e cablata di un mondo dominato dalla tecnologia talvolta fine a sé stessa. E dalla ricerca del profitto che diventa il nuovo “vitello d’oro”.

Il film rapisce dal primo all’ultimo minuto delle due ore e 20 di durata. Le atmosfere allegoriche colpiscono senza cadere nel déjà vu e il ritmo non è neanche lento, benché l’azione avvenga a modo suo. Veramente da metodo Stanislavskij l’interpretazione di Adam Driver che impersona la “leading voice” di questa narrativa. Gli altri attori, come in un’orchestra, sembrano adeguarsi al canto struggente del protagonista stesso. E si comportano da molto ben caratterizzati e connotati comprimari più che da coprotagonisti. Ci sta anche una morale salvifica nella fantascienza del futuro possibile e anzi una pretesa prometeica, visto che nella “ancient” come nella “new” Rome il fuoco si ruba agli dei del politeismo. A qualcuno questo film potrebbe andare di traverso, o perché potrebbe non piacere o perché duro da digerire. Di certo, al botteghino pensare anche solo di pareggiare i soldi asseritamente spesi, quella sì che sarebbe un’illusione utopica. Ciò detto questa specie di “summa filosofica”, e magari anche teologica sui generis, di Francis Ford Coppola, questa sorta di testamento spirituale sotto forma di canto del cigno, io me lo andrei a vedere. Tanto a Roma non fa altro che piovere.

Aggiornato il 22 ottobre 2024 alle ore 11:56