Analisi fenomenologica di un conflitto sociale
Freud, nel suo saggio Disagio della civiltà – che tratta del conflitto tra natura e cultura – aveva ammonito su un mondo moderno che si era costruito sul sacrificio, quello del soddisfacimento dei bisogni primari dell’individuo: il nostro è un mondo che ostacola il principio di piacere e per questo non consente l’ottenimento della felicità. Il punto di partenza della analisi storica del sociologo tedesco Norbert Elias – che a certi spunti freudiani deve molta della sua opera – è lo stato primitivo di orda originaria, quella dimensione sociale tribale che è incentrata sul presente e sull’impulso di soddisfare qui e ora i bisogni dell’individuo. In quello stato originario, infatti l’uomo non è in grado di differirli nel tempo, e questa incapacità è alla base di uno stato di violenza e di conflitto.
In altre parole, l’evoluzione sociale e civile ed il differimento temporale dei bisogni sviluppano la pianificazione, portano all’ampliamento della divisione del lavoro e all’interdipendenza marcata degli individui. Questa evoluzione civile ha una conseguenza, quella di giustapporre al fenomeno del corpo-soggetto, in cerca di soddisfacimento delle proprie pulsioni naturali, il fenomeno del corpo-oggetto, che viene posto, prima da altri, poi da noi stessi, sotto un crescente controllo, fino a costruire dei codici di condotta e comportamento, che fanno da argine alle pulsioni originarie di libertà. Con il cogito cartesiano, tra il XVI e il XVII secolo nasce l’uomo moderno: un uomo che ha un corpo separato da se stesso, separato dagli altri, e dal cosmos.
A un livello macro, infatti, la divisione del lavoro, per crescere, necessita di tre elementi: la trasmissione di pratiche del corpo differenziate, una forte interdipendenza tra gli individui e un ambiente pacifico. Perché questo processo si compia in modo completo e funzionale, occorre un ente centrale che assuma il monopolio della violenza, che codifichi un corpus di leggi e che amministri la giustizia. Quando, in età feudale, la competizione e il conflitto per il possesso della terra inizia a scemare, anche grazie alla crescita di una autorità centrale, una maggiore pace porta con sé lo sviluppo economico e sociale, ma anche una maggiore disciplina e una maggiore etero-costrizione: aumenta il potere delle sanzioni e dunque i pericoli della vita quotidiana si riducono.
È così che si formano progressivamente, attraverso questi passaggi, varie forme di organizzazione amministrativa (Comuni e Principati) che garantiscano il permanere di certe condizioni, e, in seguito, progressivamente, sarà lo Stato moderno l’istituzione delegata ad assolvere a chiari compiti di coordinamento. Un vero e proprio monopolio della violenza si esercita dunque su corpi divenuti “oggetti”, e, se questo svolge internamente una funzione fondamentale per lo sviluppo sociale e civile, esternamente, con le dichiarazioni di guerra e la coscrizione obbligatoria – pratica che si inizia a diffondere nel XVIII secolo – lo Stato diviene uno strumento oppressivo e coercitivo nei confronti dell’individuo, tramite un uso del tutto improprio.
In sintesi, è questo il “processo di civilizzazione” del corpo di cui ci parla Elias, processo nel quale le basi economiche, il diritto, la politica, gli aspetti demografici, ma anche la psicologia dell’attore sociale e l’organizzazione sensoriale e del corpo, son tutti elementi influenzati storicamente dal progresso. In questo processo, l’individuo e il proprio corpo si trovano inseriti in una rete di relazioni stabili, di norme e regolamenti che suscitano, e richiedono, alte aspettative di fiducia e sicurezza, e quindi portano con loro un grande controllo degli impulsi e della espressione della corporeità.
Secondo Elias, la civilizzazione si è nel tempo accompagnata a un processo di razionalizzazione del reale attraverso l’elaborazione di leggi che rafforzano il controllo dell’uomo: sulla natura, sugli altri e sul proprio stesso corpo. È così che le etero-imposizioni divengono a poco a poco delle auto-imposizioni e delle auto-costrizioni. A livello individuale, questo processo di civilizzazione del corpo è per Elias una funzione che tende a divenire automatica, quasi meccanica, come controllo sulle emozioni e sulle funzioni psico-corporee spontanee. Eppure Elias e la psicologia contemporanea ci dicono che non si tratta di un fenomeno naturale, ma di un prodotto sociale e storico, plasmabile, modificabile, elastico. Ogni epoca finisce con l’avere la sua dimensione di espressività corporea che si pone sugli assi libertà-costrizione e corpo-soggetto vs corpo-oggetto. È così che a epoche liberatorie per il corpo-soggetto si succedono epoche che esercitano su di esso una forte coercizione.
Nel 1976 lo psicologo, sociologo e filosofo tedesco Erich Fromm – legato alla scuola di Francoforte – pubblicava con immediato successo il suo libro “Avere o Essere?” in cui metteva in contrapposizione due diverse modalità coesistenti e dicotomiche nella personalità degli individui e nella struttura dei sistemi sociali: la modalità dell’avere e quella dell’essere. In tale contestualità Fromm caratterizzava la società dei suoi anni, gli anni ‘70, come decisamente sbilanciata a favore del modello “avere”. La modalità esistenziale dell’avere è tipica di coloro che hanno un rapporto col mondo di possesso, proprietà e controllo e aspirano ad impadronirsi di ogni cosa o persona, compresa la propria. Nella modalità esistenziale dell’essere invece abbiamo una forma che si contrappone all’avere identificandosi con la vitalità e l’autentico rapporto col mondo, la vera natura dell’uomo e l’effettiva realtà di una persona.
Leggendo Fromm dopo Elias, il processo di civilizzazione avrebbe raggiunto un suo completamento proprio con questa dimensione dell’avere della modernità. Per anni la visione di Fromm è stata monopolizzata dai marxisti, all’epoca identificatisi nella modalità Essere, ciò in quanto l’Avere veniva letto come il modello tipico della società industrializzata e capitalista, dell’homo œconomicus a una dimensione, costruito sulla proprietà privata, sulla mercificazione e sul profitto che porta all’identificazione dell’esistenza umana con la categoria del possesso, mentre l’individuo che si riconosce nella modalità Essere rifiuta l’omologazione e l’alienazione, è protagonista libertario della propria vita ma stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri.
È oggi facile capire come ogni strumentalizzazione politica dipenda dalle condizioni di potere o meno nelle quali certi gruppi si trovano. Ed è anche evidente – L’Opinione ne parla tutti i giorni – come il marxismo abbia oramai occupato in Italia il potere, dopo aver monopolizzato l’intera cultura. Assunto questo, si può tornare a una libera lettura di Fromm, senza inflessioni politiche, tornando alla realtà fenomenologica della modalità essere, nel quale il libero corpo è soggetto, e della modalità avere, nel quale un corpo, sotto controllo, sorveglianza e proprietà, è oggetto del potere politico e anche del suo stesso possessore.
Pochissimi sanno che questa contrapposizione tra Avere ed Essere non fu affatto una scoperta o esclusiva della Scuola di Francoforte. Nel 1935 esce infatti per l’editore Aubier il volume Etre et Avoir del filosofo cristiano Gabriel Marcel. Marcel fu influenzato dalla fenomenologia di Husserl e dal bergsonismo, e la questione fondamentale che il libro si pone è “io-sono il mio corpo o io-ho un corpo?” Secondo Marcel è più giusto dire “Je suis mon corps”, in quanto non si può guardare al proprio corpo come un oggetto o come un problema da risolvere in quanto questo implica un logico distacco che sarebbe necessario fare, e, qualora io aderissi alla dimensione del corpo-oggetto, il corpo cesserebbe di essere il mio corpo.
Va qui sottolineata la doppia svista liberale sul tema Essere-Corpo. Per anni la visione di sinistra del problema Avere o Essere aveva obbligato a una scelta manichea. E, dato il monopolio che Fromm pose sull’Essere, che l’intellighenzia di sinistra aveva dilatato, al mondo liberale non era restato che insistere sull’Avere e sulla proprietà, certamente come dimensioni economiche del tutto irrinunciabili dell’individuo, ma anche come uniche bandiere che avrebbero tenuto l’Essere in secondo piano, non mettendo a fuoco come di questo Essere e del Corpo-Soggetto ne fosse stata fatta una occupazione impropria da parte degli orfani del marxismo.
La seconda svista fu di dare alla corporeità un significato materialista – cercando dunque di sfuggire al problema, rifugiandosi in un soggetto disincarnato: mente o anima – trascurando invece come proprio da due autori credenti, come Marcel e Merleau Ponty, il tema del corpo-soggetto fosse stato introdotto nella filosofia contemporanea. Gli elementi fondanti della riflessione di Marcel non possono comunque non colpirci, oggi. Quanto e come infatti la dimensione nella quale ci getta una emergenza pandemica planetaria influenza la nostra corporeità, al punto da rigettare la sua dimensione soggettiva, facendoci aderire a quella oggettiva, nella quale il nostro corpo diventa un problema serio da risolvere?
Quanto e come la crisi sanitaria in atto mi obbliga ad assumere una percezione del mio corpo, come un peso, un oggetto necessario di cure, qualcosa che sono obbligato a portare con me, invece di essere uno strumento esistenziale e sintetico di azione per ottenere il soddisfacimento dei miei bisogni e dei miei desideri? In una prospettiva liberale, e seguendo uno schema fenomenologico e non marxista, possiamo sottolineare dunque quanto e come l’essere-corpo o l’avere-un-corpo sono solo due modalità con le quali ciascuno di noi si può porre di fronte alla vita e si pone oggi, davanti alle problematiche che la pandemia di Covid e l’emergenza sanitaria ci continuano a proporre.
Aggiornato il 02 agosto 2021 alle ore 10:37