Il Conflitto Sociale al tempo dell’individualismo
Fenomenologicamente parlando, quando nasciamo e il corpo viene al mondo, la società è già lì, e diviene il campo nel quale il corpo si muove e fa esperienza dell’esistenza. La socialità del corpo comporta l’esperienza diretta e incarnata di alcuni eventi: un contatto, un’interazione, l’avvio di una situazione sociale, di una possibile relazione, ma anche di un possibile conflitto.
Il conflitto – insegna la sociologia dell’Occidente democratico e liberale – è funzionale alla società. Ne è un elemento fisiologico. Una società senza conflitti è senz’altro una società totalitaria, dove gli individui sono posti sotto controllo. Ogni società aperta, dove esiste un grado diffuso e accettabile di libertà, lascia che il conflitto esista e permanga. Semmai, si occupa di costruire istituzioni e meccanismi che abbiano la funzione di incanalare il grado di conflitto entro limiti accettabili e funzionali. Il sistema politico, elettorale, quello sindacale, il sistema giuridico, possono essere visti come strumenti atti a indirizzare il conflitto entro modalità di convivenza democratica e civile.
Non solo, il conflitto sociale è uno di quei fenomeni che permette alla società di evolversi, di cambiare, storicamente, verso ciò che dovrebbe essere, moralmente ed eticamente, migliore, verso il bene, verso ciò che è più giusto. Questo paradigma – che è stato ben spiegato, a posteriori, soprattutto grazie ai contributi della Scuola di Francoforte – permise di dare corpo al dispiegarsi delle democrazie e del progresso sociale che contraddistinsero i secoli dalla rivoluzione americana e francese in avanti. Per due secoli, almeno fino agli anni ‘90 del XX secolo, ovvero fino alla caduta del muro e alla dichiarazione di “fine della storia” espresso da Fukuyama, le “magnifiche sorti e progressive” della democrazia liberale – e non quelle del sol dell’avvenire, su cui la storia diede una sentenza definitiva con la caduta del muro ‒ sembrarono dare chiaramente i loro frutti.
Solo il funzional-strutturalismo, nella teoria sociale, concepì il conflitto come un’anomalia, una malattia del sistema che andava curata, che andava fatta sparire, per consentire la costruzione dell’ordine sociale, della concordia universale, della società funzionale. Un funzional-strutturalismo, in un certo senso, mutuato dal socialismo reale, o che, viceversa, ispirò quelle forme di governo che intendono costruire, viceversa, le società “perfette”, “armoniose”, “concordi”, che la falsità dei regimi totalitari, incluso quello fascista o nazista, raccontava.
Da sempre, i conflittualisti, videro l’ordine perfetto per quel che era: un’utopia. Questa utopia si sarebbe sempre realizzata a scapito di alcuni gruppi sociali, sui quali una certa, dovuta, pressione sociale si sarebbe necessariamente abbattuta, in nome della felicità universale e della falsa coesione del resto del sistema. Insomma, il cosiddetto etnocentrismo contaminò anche le rivoluzioni popolari, socialiste e comuniste, facendo di un nemico fittizio il loro strumento catalitico.
Questo tipo di tematiche è parte integrante della new wave distopica e futurista della cinematografia di Hollywood, da trent’anni a questa parte. L’ordine perfetto è sempre un ordine imposto dall’alto, a detrimento di ciò che è più umano e più naturale, e che appartiene ad ogni individuo, incarnato dall’eroe, dotato di corpo-soggetto, che si mette contro il sistema totalitario, inumano e aberrante, che vuole dominarlo, controllarlo, imprigionarlo entro schemi comportamentali, politici e sociali.
Assumiamo il conflitto sociale, dunque, come un fenomeno assolutamente fisiologico alla nostra società occidentale: lo accettiamo. E lo possiamo affermare servendoci di tanta parte della sociologia del 900 e del contributo che di esso ne danno ne “La teoria del conflitto”, Irene Della Rossa, Alessandro Mariotti e Jacopo Todaro.
Secondo Simmel, la società è un’arena in cui si battono vari gruppi di persone. Si combattono per acquisire il potere. Certo, il conflitto è “controllato”, ma solo parzialmente e temporaneamente, dal gruppo che sinora è riuscito a prevalere sugli altri. Al di là di alcuni interessi di base comuni a tutte le società, il Potere è determinato dal nucleo delle relazioni sociali esistenti ed è distribuito in modo diseguale tra gruppi e individui, ed è coercitivo. I valori e le idee sono “armi” usate dai singoli gruppi per perseguire i propri fini: si tratta delle cosiddette ideologie.
Quel che abbiamo cercato di fare nell’intero lavoro è descrivere un conflitto che ha caratterizzato questi anni, ma che non può certo avere la conquista del Potere come suo obiettivo. La struttura del Potere, detenuto da alcune élite, oggi, sembra infatti consolidato, inossidabile, non modificabile. Dunque, occorre che gli obiettivi del conflitto vengano modificati. Ad esempio, inizialmente, potremmo inserirvi con certezza la “maggiore o minore libertà individuale”.
E aprire maggiori spazi di libertà dovrebbe essere il nostro obiettivo principale: attraverso piccole vittorie.
Spendiamo, però, due parole per cercare di capire l’epoca “sociologica” nella quale viviamo.
Alain De Benoist sostiene che viviamo nell’epoca di due ideologie, quella del progresso e dei diritti umani, nella quale un’antropologia di tipo liberale, individualista, si è fusa con quella del maggio ’68. Dal canto suo, Marcello Veneziani lamenta che ormai “abbiamo mortificato il senso della comunità” e che “la malattia mortale delle moderne società occidentali sta nella riduzione individualistica della vita”.
A loro risponde Michele Gelardi: “L’idealtipo di individuo di cui entrambi parlano non è l’homo faber, dotato di iniziativa economica, al centro dell’universo liberale, auto-determinato, bensì l’uomo sotto tutela, minusvalente, costretto a richiedere sempre e ovunque l’intervento dello Stato, per vedersi concessi i propri diritti”.
Insomma, l’individuo, ormai espulso da qualunque appartenenza sociale ideologica spirituale o religiosa, oggi sta andando ramingo, pauroso e separato, da ogni comunità, ma soprattutto è stato separato da se stesso, e dalla propria possibilità e capacità produttiva e creativa.
Nella realtà, dunque, in quest’epoca, sicuramente individualista, ci sono due idealtipi di individualismo che concorrono. Da una parte l’individuo del corpo-oggetto, dello schiavo, che si allea con lo Stato e il potere per poter impedire all’altro individuo, il corpo soggetto e homo faber, di tornare a dettare legge e regole secondo le normali consuetudini, nelle quali il lavoro, la conoscenza, la fatica sono cose forse complesse e difficili da poter mettere in atto, ma che alla lunga pagano perché consentono di costruire la realtà secondo il proprio lume (individualista), e non secondo il lume (collettivista) di chi oggi ti paga per non fare niente, e soprattutto per impedirti di ricostruire il mondo cosi come sarebbe giusto. Ovvero un mondo nel quale chi detiene oggi il potere, e ha già deciso per il declino dell’occidente, verrebbe immediatamente defenestrato.
Lo Stato, posto di fronte a un individuo senza difese, lo ha fagocitato. Lo Stato oggi accompagna quell’individuo dalla culla alla tomba, ma – come si è visto durante la pandemia, nell’aberrazione umana che si è tragicamente consumata – lo lascia solo, da malato, nel passaggio alla morte, e poi, ancor più solo, nel divieto di celebrazione funeraria (evento mai avvenuto da che esiste la storia) lo porta alla tomba.
Precedentemente avevamo introdotto il fatto che le persone durante la pandemia sono diventati “esseri alla ricerca di soluzioni per mettersi al riparo da paure ancestrali, dal Potere provocate, soprattutto attraverso una narrativa menzognera, stante il chiaro e definitivo sbilanciamento che il sistema mediatico ha subito a favore del versante dirigista e lealista alle scelte assunte dalla maggior parte dei governi”.
Abbiamo così introdotto “due tipi di immunitas: una immunitas da rischi e pericoli sanitari, ed una immunitas del proprio vivere quotidiano dai diktat e dai condizionamenti provenienti dall’esterno, dal Potere, qualunque sia il pericolo collettivo che incomba sulla società”. Queste due modalità di immunitas sono l’obiettivo che porta al conflitto tra le due percezioni del corpo, vissute dagli individui.
Il conflitto esistente, che stiamo descrivendo, avviene tra chi asseconda le proprie paure e, di conseguenza, approva quella sorta di smania dirigista, governativa e mediatica, che cavalca questa paura, fatta di chiusure, di divieti, di controlli e sorveglianza su di sé e sugli altri corpi-oggetto e chi invece vuole vincere i propri timori, e, disapprovando chi li alimenta, vuole tornare alla propria vita fatta di normalità, di ordinaria e serena quotidianità, nella quale tornare ad affermare il proprio naturale essere-il-corpo, o corpo-Soggetto, il proprio libero arbitrio, la propria titolarità di libero attore, che non vuole rinunciare a nulla del mondo.
Sosteniamo che più una società è libera e democratica, e lo Stato è minimale, più individui e gruppi trovano la possibilità di fronteggiarsi in modo paritario ed equilibrato, in conflitti fisiologici. Ma il conflitto emerso con la gestione pandemica, a cui stiamo assistendo ancora oggi nella società non presenta alcun equilibrio; pertanto, non sembra trattarsi di un conflitto fisiologico. È un conflitto nel quale una delle parti in conflitto è alleata con l’arbitro, con il Potere che decide.
Cerchiamo allora di scoprire che tipo di conflitto stiamo tentando di descrivere, attraverso il pensiero di alcuni tra gli autori che lo hanno trattato.
In presenza delle ideologie tradizionali, per Simmel, la società è attraversata da molteplici conflitti che si intersecano fra di loro, e, alcune delle persone accomunate su un fronte ideologico, possono anche combattersi su un altro.
Durante la fallimentare gestione pandemica persone con ideologie completamente diverse si sono trovate dallo stesso lato della barricata. La variabilità e l’interdipendenza dell’interazione sociale ha inciso sulla natura del conflitto, molto più dell’ideologia di cui si era portatori, e, come abbiamo già visto, la percezione che si ha del proprio corpo ha sicuramente modificato le scelte di appartenenza sociale e di interazione.
Per Marx, che applica una visione economicista, gli individui hanno interessi chiaramente definiti, e c’è un forte legame tra ideologie e interessi, le idee prevalenti di un’epoca sono quelle sostenute dalla classe dominante. Già si percepisce la differenza con il pensiero di Simmel, capace di vedere il fatto sociale. Marx, fa riferimento a un idealtipo di soggetto razionale, che persegue i propri interessi, come farà anche Weber.
Per Marx, se gli individui, nell’azione e nel conflitto, non perseguono i propri interessi, probabilmente sono stati ingannati da chi detiene il potere. È esattamente quello a cui abbiamo assistito oggi: c’è un inganno perpetrato da chi detiene il Potere nei confronti dei sudditi, degli schiavi, dei corpi-oggetto.
La classe dominante oggi, tutt’altro che composta da corpi-oggetto, ma da soggetti nella stanza dei bottoni, vuole, evidentemente, che giù, nella società profonda, il corpo-oggetto, manipolabile dal Potere, trionfi, e sostiene dunque in tutti i modi la trasformazione degli individui in oggetti.
Anche per Weber, le attività umane sono mosse soprattutto dagli interessi: interessi universali, fini e valori specifici di ogni società. Weber, come abbiamo già visto sopra, ricorre alla creazione dell’idealtipo per rendere intelligibili i conflitti in società. Ma se l’homo socialis di Weber è un essere razionale, il corpo oggetto che descriviamo in queste pagine usa solo un certo tipo di logica, che è la logica dello schiavo.
Sono poi stati i sociologi della Scuola di Francoforte – da parte loro – a dare sicuramente uno sguardo più ampio, conferendo importanza alla struttura economica della società, ma anche alle personalità, alla cultura ed al pensiero, nonché al comportamento, in termini di interazione tra sistema economico e pulsioni psichiche, per loro il conflitto sociale è insanabile, in quanto si tratta di un prodotto della libertà. Sono i sociologi che più comprendono come la struttura comportamentale e sociale dipenda da un modus psicosomatico, da una percezione della propria corporeità. In loro l’influenza di Wilhelm Reich, l’allievo “eretico” di Freud, è esplicita.
Ancora, secondo Bourdieu, di cui abbiamo già descritto la teoria dell’habitus, esiste un certo grado di “riproduzione sociale”, che coinvolge tutte le classi, ma in particolare individua i modi nei quali la classe dominante riesce a riprodurre il proprio potere, trasmettendo alle nuove generazioni i patterns psicosomatici – inclusi i privilegi di cui gode – che la caratterizzano.
Il corpo, i suoi actings e le sue abitudini, e le stesse percezioni, dunque, vengono tramandate di generazione in generazione, e possono diventare anche uno strumento di Potere.
Per Bourdieu, è nell’apparato educativo che si esercita una selezione della classe dominante, che è così basata sui criteri culturali da essa stabiliti. È il dramma del conformismo educativo. A scuola, in Europa, ma soprattutto Italia, oggi, non si insegna più la critica sociale, e non è una casualità. Esiste dunque, a causa di tutto questo, un’alta probabilità che nei momenti di crisi dell’egemonia da parte di una classe, si instauri un periodo di grandi conflitti.
Eppure, secondo Dahrendorf, il conflitto è proprio la forza creativa della storia umana. E constatare la sua esistenza non deve dunque essere solo motivo di inquietudine, ma anche di aspirazione e speranza.
La distribuzione del potere è sicuramente il fattore determinante della struttura sociale, e l’essenza del potere sta nel controllo delle prerogative del potere e le sanzioni che si collegano a quelle infrazioni che mettono in discussione tali prerogative.
I conflitti avranno luogo, sicuramente, tra gruppi che differiscono per l’autorità che possono far valere su altri, ma conflitti diffusi, sul piano generale, avvengono tra individui che fanno riferimento a tali gruppi, sia per la loro appartenenza che per la loro vicinanza ideologica o caratteriale e percettiva.
Secondo il marxismo, i maggiori conflitti sociali avvengono tra chi ha autorità e chi non ne ha, ma quando ci riferiamo al nostro conflitto, tra chi è-il-corpo e chi-ha-un-corpo, in genere, l’essere parte dell’autorità e del potere è cosa abbastanza indifferente, ai fini della nostra indagine, dato che si rileva un conflitto tra individui che nasce dalle richieste che il Potere fa erga omnes, indifferentemente dalla loro appartenenza/vicinanza all’élite o meno.
Coser, in modo molto calzante, fa comunque riferimento all’esistenza di impulsi estremamente aggressivi nelle persone, e di un conflitto e un disaccordo fisiologici, e presenti come parte integrante dei rapporti interpersonali. Inoltre, Coser chiarisce che il conflitto verso l’esterno di un gruppo delimita i confini di esso, rafforzando l’identità interna al gruppo. Mentre il conflitto interno al gruppo di riferimento intende denunciare i “devianti”, evidenziando la condotta corretta da tenere, ed è quindi elemento fondamentale per la sopravvivenza del gruppo.
In questo senso si può dire che più la percezione è quella del corpo-oggetto e più la tendenza al conformismo si accentua, mentre i corpi-soggetto finiscono con l’avere più difficoltà a conformarsi a una sola condotta conforme. Evidentemente, in altre parole, il corpo oggetto vive tra due paure: la paura di apparire “deviante”, poiché il Potere lo identifica e qualifica, e la paura della libertà.
L’unica strada “attiva” da percorrere per il corpo-oggetto è quella della castrazione, della frustrazione degli impulsi vitali e di libertà. Avendo esso già castrato i propri, potrà dedicarsi attivamente a castrare anche quelli degli altri. E la sua aggressività verrà canalizzata in quella direzione. Il corpo oggetto trova, come sola consolazione dal suo stato, una ragione nell’assicurarsi che nessuno contravvenga alle regole imposte dal Potere. Si pone quindi come guardiano delle regole stabilite, per quanto la conformità ad esse non rientri tra i suoi stretti interessi.
Invece, chi assume su di sé il viaggio del corpo soggetto, si trova in quella posizione in cui si può essere in disaccordo su qualcosa, insieme agli altri, ma poi, si confligge assai sui modi nei quali il disaccordo debba essere promosso. Si è d’accordo sull’avversario da combattere, mentre l’azione e il tipo di azione, la condotta da tenere nel dissenso trova differenze abissali, da individuo a individuo.
In conclusione, si possono affermare alcuni spunti importanti di cui ci serviremo più avanti:
- tutti i sociologi che hanno affrontato il tema del conflitto hanno, chi più chi meno, insistito su idealtipi nei quali il soggetto è orientato da interessi, secondo una razionalità da homo aeconomicus, mentre noi abbiamo potuto constatare che è proprio la mancanza di consapevolezza e di coerenza a caratterizzare l’idealtipo del corpo-oggetto.
- quest’epoca individualista necessita di idealtipi che chiariscano bene quale sia il tipo di individualismo in corso.
- il conflitto è sempre connesso al sistema di Potere e alle condizioni reali nelle quali poggia il sistema dell’autorità.
- l’aggressività viene coltivata dalle persone quando esiste in loro un certo grado di impotenza: se un individuo percepisce di non essere in grado di modificare un certo stato di cose, non trova rifugio se non in una certa dose di aggressività. Questa viene canalizzata contro il corpo soggetto per coloro che sono schiavi del Potere, mentre viene canalizzata contro chi rappresenta il Potere da parte degli uomini liberi.
- nei conflitti sociali aperti, anche oggi in quel che avviene sui cosiddetti social, e riguardo al conflitto di cui trattiamo in questo lavoro, il conflitto richiama sempre a un “noi” e a un “voi”: ovvero il sentimento dell’appartenenza a un gruppo di riferimento è sempre presente, ma ormai il “noi” e il “voi” sfuma in individui (e corpi) che della loro comunità di riferimento di appartenenza hanno scarsissima coscienza.
Appare fondamentale, dunque, avviare una riflessione profonda sul fatto che, defunte le ideologie, occorre ripartire dalla percezione del proprio corpo per ricostruire nel nostro paese e in Europa, un individualismo virtuoso, produttivo, nel quale le spinte soggettive superino quelle gregarie e mortificanti.
(*) Leggi i capitoli precedenti: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22
Aggiornato il 13 settembre 2024 alle ore 10:50