Nell’enorme baraonda di analisi e commenti attorno al delitto che ha avuto come vittima la povera Giulia Cecchettin c’è la presenza dominante di riferimenti alla condizione femminile, al disagio giovanile, all’educazione, alla famiglia e, come ormai è d’obbligo, alla cultura.
Al di là di tutte queste possibili origini, sociologicamente orientate, come causali del delitto, manca ogni riferimento all’assassino in quanto individuo, come se fosse un semplice derivato di cause esterne al proprio ego e non la sede di eventi psichiatricamente rilevanti, come, per esempio, qualche acuta forma di depressione aggressiva. Viviamo dunque in un’epoca nella quale ciò che accade nel cervello di un individuo ha meno importanza di quanto avviene nella società cui appartiene, a cominciare dalla famiglia per finire con la scuola passando per i cosiddetti social network. Il merito scientifico della sociologia, pensiamo ancora una volta al lavoro di Émile Durkheim sul suicidio, è sicuramente quello di cercare di spiegare alcune classi di fenomeni individuali attraverso possibili condizioni predisponenti di ordine sociale ma non per escludere o negare l’imputabilità individuale, anche giuridica, di un comportamento. Lo scopo di Durkheim era quello di sostenere l’idea di una sociologia autonoma a fianco della psicologia e non di rinviare anche i fenomeni più squisitamente individuali alla società.
In attesa delle perizie psichiatriche alle quali Filippo Turetta sarà certamente sottoposto e nell’impossibilità di entrare nella sua testa o interrogarlo durante un talk-show, troppi commentatori si sono lasciati andare ad interpretazioni di vario ordine ma sempre tenendosi scrupolosamente lontani da qualsivoglia ipotesi che riporti in primo piano l’individuo e le sue patologie. Questa è la forma di sociologismo che fa più danni alla sociologia oltre che alla ricerca della verità.
Ad ogni modo, fra le assurdità sentite e lette in questi giorni, non è possibile trascurare affermazioni le quali, oltre a non avere alcunché a che fare con Filippo, sembrano proposte per finalità ideologiche decisamente estranee alla vicenda. La più esilarante è consistita nella focosa lettura, da parte di una commentatrice, di un lungo elenco di statistiche negative nelle quali il primato schiacciante è sempre dell’uomo. Secondo la signora in questione, il ruolo “cattivo” degli uomini sarebbe testimoniato dal fatto che, per esempio, il 95 per cento degli usurai, dei responsabili di incidenti stradali o di evasori fiscali (e di molte altre categorie) sono maschi. La stupidità di questo genere di deduzioni consiste nel fatto che le percentuali non vengono ricondotte al rispettivo totale: se le donne alla guida sono molte meno degli uomini è ovvio che gli incidenti generati dai maschi saranno più numerosi. Più interessante sarebbe fornire la statistica di quanti incidenti vengono generati da 100 maschi da un lato e 100 femmine dall’altro. Ma chiedere questo sia pur minimo rigore analitico a chi vuol fare solo propaganda di qualche dogma è certamente inutile. Più utile è forse invitare a riflettere non tanto sul patriarcato, che sa di vecchio, quanto sulla sempre più marcata emancipazione femminile che si esprime nelle professioni, nelle abitudini quotidiane e in molte attività di tempo libero. Si tratta di un fenomeno che, sotto il profilo dei principi, è sicuramente positivo e da incoraggiare. È però realistico sottolineare che se la parità di genere dovesse realizzarsi in pieno, attraverso una formazione della personalità e della mentalità femminili in tutto e per tutto indistinguibile da quella maschile, ciò implicherebbe necessariamente da parte delle donne l’adozione di stili di comportamento che oggi sono maggiormente esibiti dagli uomini.
In altre parole, non sarebbero la gentilezza e l’eleganza femminili a diffondersi presso i maschi, bensì la non rara durezza di questi ultimi ad introdursi nei modi femminili.
Aggiornato il 07 dicembre 2023 alle ore 14:54