Nella giornata dedicata all’auspicata eliminazione della violenza sulle donne l’onorevole Laura Boldrini non ha trovato di meglio che chiedere al folto gruppo di studenti che l’ascoltavano un minuto di rumore. Richiesta che è stata immediatamente esaudita anche perché, per i ragazzi di ogni tempo, il rumore è sempre attraente in quanto dà sfogo a esuberanza e vivacità. C’è tuttavia da chiedersi se, in un’occasione come quella ricordata, il rumore andasse d’accordo con la tristezza per le vittime della violenza. A mio parere assolutamente no. Ma, poi, la riflessione si sposta sull’intera realtà della società contemporanea, in particolare giovanile ma non solo, nella quale il silenzio ha perso ogni valore senza, peraltro, dare luogo a qualche avvertibile miglioramento delle cose che non vanno.
Il silenzio è in effetti uno dei principali olocausti nella cultura antropologica contemporanea. I ragazzi che battevano le mani sul banco su invito della Boldrini sono gli stessi che, poi, si lacerano l’udito nelle discoteche, battaglia autolesionistica che proseguono con auricolari più ore al giorno e che, almeno unn parte di loro, nelle piazze o nelle università scambiano l’esternazione delle proprie idee con il fragore più assordante possibile, e così via.
Gli adulti, d’altra parte, non sono da meno. Il rumore campeggia ovunque, persino col battito delle mani durante un funerale, come corredo dei talk show e, inutile dirlo, nelle più diverse manifestazioni pubbliche, dagli incontri di calcio ai cortei sindacali, nei bar e persino in vari supermercati dove domina la muzak, musica banale che non deve farsi ascoltare ma, appunto, solo reprimere il detestato silenzio. E pensiamo alla vita quotidiana nelle nostre abitazioni. Anche qui il silenzio è totalmente abolito e, come per le aziende televisive esso sarebbe segno di perdita di fatturato, per la grande maggioranza delle persone il silenzio genera malinconia e frustrazione. Per cui, meglio lasciarsi cullare dalle pubblicità più sdolcinate, dalle sigle più chiassose e da qualsiasi altra emissione sonora, purché il silenzio non costringa a vivere dei soli propri pensieri, razionalizzando talvolta questa attitudine dichiarando che il suono, anche se privo di qualsivoglia valore, ‘fa compagnia’.
Questa estate, durante una vacanza in Valtellina, mi sono stupito, con grande piacere, del silenzio che circondava la casa che avevo affittato, lasciando alle montagne e ai prati il ruolo protagonista. Ebbene, il proprietario mi diceva che non pochi villeggianti avevano trovato il silenzio troppo intenso, al punto di generare depressione e difficoltà nel dormire. Insomma il silenzio, che, nel nostro passato, sia esso laico o religioso, ha avuto un preciso ruolo culturale perché comunica e induce ossequio e riflessione, sembra non essere più considerato come quella manifestazione di pace interiore cui si riferiva il filosofo Arthur Schopenhauer, né in grado di esprimere qualcosa di altamente efficace come sostenuto da Ludwig Wittgenstein, né di sottolineare il necessario rispetto per la tradizione e, insieme, lo studio dell’innovazione come indicato dal Silentium ne I maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner. Il silenzio nei mass media, così come sarebbe una pagina in bianco in un quotidiano, è semplicemente tempo non monetizzato, ed è percepito come insuccesso, sconfitta. Un presupposto ormai divenuto costume.
In realtà, la vera perdita è a carico di chi, e sono molti, non conoscono o hanno dimenticato cosa significhi leggere o studiare in santa pace, meditare o conversare amichevolmente senza contorni assordanti o sovrapposizioni di parole e invettive, dando così il tempo al cervello di fare al meglio il suo lavoro nel silenzio di cui ha bisogno vitale.
Aggiornato il 26 novembre 2024 alle ore 16:10