C’era una volta un “codice d’onore”

E quel che è accaduto a Caivano ne è il certificato di morte. Ma i responsabili non abitano solo al Parco Verde.

C’era una volta un “codice d’onore” che segnava, talora anche con un giuramento, l’adesione alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Un codice che imponeva il rispetto di determinati valori e principi riconosciuti come indispensabili per guadagnarsi il consenso della comunità che si pretendeva di governare; certamente un ossequio di facciata, un “inchino” finalizzato solo al consolidamento dell’egemonia della consorteria mafiosa, del “sistema”; ma pur sempre un “codice” da rispettare e da far rispettare e che, in quanto tale, contribuiva a tracciare i contenuti di un’identità forte – o almeno percepita come tale – che esercitava un’indubbia forza attrattiva, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.

È quanto osserva Giovanni Falcone a proposito del “fascino” esercitato da parte di Cosa nostra che, appunto, “conserva qualcosa di cui gli altri membri della collettività sono privi: la cultura dell’appartenenza e la fedeltà a valori fondamentali. In un mondo privo di punti di riferimento, i mafiosi tendono a conservare la propria identità”. (Cose di Cosa nostra di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani 1991).  Ebbene, quel codice non c’è più. A Caivano ne è stata certificata la morte. È stato, verosimilmente, dilaniato dalla meccanica del circuito vizioso innescata dalla dissoluzione dei valori e dalla perversione sfrenata, che non poteva non colpire gli stessi sodalizi mafiosi, fra i principali motori di quel processo.

Si è chiusa, verosimilmente, un’epoca della criminalità organizzata o, almeno, stiamo assistendo al tramonto di uno “stile di vita” di mafioso che intendeva, ostentatamente, porsi in conflitto con un modo di vivere e di pensare “degenerato” e “lassista”. Il rapporto dei minori con la criminalità di tipo mafioso rappresenta, per tanti aspetti, il sintomo più significativo di tale transizione. Ed infatti, fra le regole che sono venute meno, c’è quella che presiedeva al modo di atteggiarsi dell’universo mafioso rispetto ai minorenni, agli adolescenti, i quali, agli occhi dei padrini di un tempo, acquisivano rilevanza, sia come soggetti da affiliare che come possibili obiettivi da colpire, solo con la maggiore età. Una regola che sembra essersi sciolta, come il piccolo Di Matteo nell’acido versato da Totò Riina. Si è trattato di un cambiamento lento ma radicale della mentalità del mafioso, che ha inciso notevolmente sulla condizione dei minori negli ambienti egemonizzati dalla criminalità organizzata.

Quante volte nel passato abbiamo assistito alla reazione, immediata, inesorabile, del clan nei confronti di coloro che si erano resi responsabili di crimini ritenuti lesivi di quel codice d’ “onore”; e fra questi, soprattutto, dei colpevoli degli abusi sessuali sui minori, considerati come “intoccabili”. Quei “mostri” venivano giustiziati e tutti sapevano che erano stati giustiziati dai padrini, senza inutili processi e senza pietà alcuna. Era un modo con cui la consorteria mafiosa manifestava la propria omogeneità rispetto al “codice” dei valori condivisi dalla comunità. Oggi dobbiamo registrare una significativa assenza di reazione nei confronti di comportamenti di quel tipo. Non solo, i fatti di Caivano attestano un’evoluzione ulteriore: la camorra non solo non reagisce, ma protegge gli autori di tali odiosi crimini.

Il dato è verosimilmente sintomatico di un mutamento nella considerazione stessa di tali condotte: in un contesto, sociale e culturale, nel quale non vi è più la condivisione di qualsivoglia regola, contesto generale a cui corrisponde un contesto particolare, quello del sodalizio mafioso, dove quel che conta è la volontà del capo intesa come desiderio di autoaffermazione, nessuno avverte più la necessità di intervenire e di punire condotte “moralmente” ritenute non tollerabili. Il consenso della comunità si guadagna diversamente; non c’è più ragione di presentarsi come inflessibili “giustizieri” dei comportamenti ritenuti un tempo travalicanti i confini della stessa tolleranza criminale, per la semplice ragione che confini più non ci sono. Non si intende qui sminuire la portata dei diversi fattori che contribuiscono a spiegare l’attecchimento e la sistematicità di determinate condotte in pregiudizio dei minori.

Certo è che si assiste sempre di più alla combinazione di molteplici e convergenti condizioni che fanno sì che gli abusi su minori acquisiscano il carattere di pratiche diffuse e tollerate – se non proprio alimentate – dai sodalizi di tipo mafioso. Da un lato la disgregazione dei legami familiari, l’assenza di qualsivoglia punto di riferimento protettivo dei minori, non supplito da altre istituzioni, spesso assenti in quartieri scolpiti a tavolino e riempiti con operazioni di deportazione. Dall’altro il bambino come oggetto di divertimento dell’adulto, talora di divertimento organizzato, messo quindi a disposizione di una cerchia più o meno estesa di adulti; di un divertimento anche sublimato “culturalmente”, presentato comunque come una manifestazione di amore, di tipo “intergenerazionale”, all’insegna dello slogan “Love is love”.

Non è un caso, pertanto, se in determinati quartieri, pur sottoposti a controllo della criminalità organizzata, si diffonda sempre più il modello del bambino “adultizzato”, pronto a replicare i comportamenti degli adulti, in campo criminale, come in quello sessuale. La mafia, la camorra, la ‘ndrangheta – fa parte della loro storia – lucrano sfruttando i vizi; prima ancora del pizzo sulle attività commerciali, la criminalità organizzata ha da sempre tratto lauti guadagni imponendo la tassa sul soddisfacimento delle pulsioni viziose. È accaduto sul traffico di sostanze stupefacenti, sulla prostituzione; ben può accadere sullo sfruttamento sessuale dei bambini. Soprattutto una volta che si è sfaldato quel codice comportamentale che metteva al bando determinate condotte viziose. Lo scenario che si presenta, sempre più frequentemente, dinanzi agli occhi è quello di un turismo sessuale che si rivolge verso determinati quartieri controllati dalla criminalità di tipo mafioso non solo per approvvigionarsi di droga, ma anche per prendersi la dose di squallido piacere trastullandosi con minori spacciati come bustine di cocaina.

Chi non può permettersi viaggi in estremo oriente, trova spesso nelle periferie estreme delle città ammorbate dal cancro criminale il modo per coltivare il proprio vizio, a costi senz’altro più contenuti e a “chilometro zero”. Di chi la colpa di tutto questo? Del camorrista che organizza il traffico? Ancora una volta, occorre fare attenzione a non scambiare chi approfitta di un fenomeno, con le cause, certamente più profonde, culturali e sociali, del fenomeno stesso. Se vi è un interesse della criminalità organizzata, è perché vi è una domanda sempre più estesa (basti pensare alla diffusione della pedopornografia in ambienti sempre più “insospettabili”) e sempre più esigente; una domanda a cui ora viene data una risposta anche dalla criminalità organizzata.

E allora, se può essere senz’altro utile, anzi consigliabile, allontanare i minori abusati dal contesto familiare e sociale di riferimento, è molto più decisivo incominciare ad affrontare il problema dalle radici, che sono ineludibilmente culturali e chiamano in causa un’antropologia tutta incentrata sul superamento di ogni limite, teorizzato e vissuto non più solo in versione elitaria ma anche e soprattutto di massa. Se tali sono le radici profonde, non serve coltivare un approccio diretto a sminuire l’entità del problema, circoscrivendolo nel novero delle variegate manifestazioni di degrado di quartieri da periferie metropolitano. “Nihil humanum a me alienum puto”, insegna la sapienza classica, soprattutto quando l’umano va assumendo sempre più i caratteri del subumano. La correttezza e l’esaustività della diagnosi è condizione perché la terapia possa essere davvero efficace.

Occorre, pertanto, agire per far in modo che quel mondo, inselvatichitosi e resosi subumano, e chi vive in quel mondo – che è anche, in una certa misura il nostro – torni a recuperare l’umano e la sua dignità; costruendo quinte di vivibilità alternative ai contesti criminali, favorendo la creazione di ambienti e occasioni di incontro, diffondendo modelli e punti di riferimento, rispondendo, insomma, a domande di senso, di ricerca di identità, prima e più che preoccuparsi – come pure è giusto – dei bisogni materiali. Per far questo, è necessario avere delle risposte; è necessario che vi siano persone che, sull’esempio di don Maurizio Patriciello, intendano non rassegnarsi a quell’inferno né far finta che sia un nonluogo, una città invisibile; è necessario scendere all’inferno, con l’obiettivo di tirarne fuori quanti, minori in testa, sono stati condannati, senza colpa, ad una dannazione morale e sociale.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 01 settembre 2023 alle ore 14:09