Terroristi impuniti: giustizia è sfatta!

La Corte di Cassazione francese respinge la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia nei confronti di alcuni brigatisti rossi, condannati per omicidio ed altri gravi reati, perché l’esecuzione della pena rappresenterebbe un danno sproporzionato al loro diritto alla vita privata e familiare. La sproporzione c’è, ma riguarda la giustizia, liquidata in poche righe.

La Corte di Cassazione francese ha deciso che i brigatisti che si sono sottratti al processo in Italia rifugiandosi in terra transalpina ‒ dove, evidentemente, sapevano di poter contare su una benevola ospitalità ‒, non vanno estradati.

È stata respinta, pertanto, la richiesta avanzata dalle autorità italiane e, in questa occasione, sostenuta dal Governo francese, di poter finalmente dare esecuzione alle sentenze di condanna, per omicidio ed altri gravi reati, commessi dagli estradandi durante i cosiddetti anni di piombo.

La decisione non ha sorpreso più di tanto i familiari delle vittime, rassegnati oramai a non avere più giustizia, ma desiderosi quanto meno di una pubblica manifestazione di ammissione di colpa, segno di un sia pure tardivo ravvedimento da parte di chi ha stroncato intere famiglie.

E però adesso sono i brigatisti (difficile definirli “ex” in assenza di qualsivoglia pentimento) ad essersi fatti una famiglia in Francia e questo vale a paralizzare ogni pretesa punitiva, anche se si è al cospetto di reati e pene che, per la lor gravità, non sono soggetti a prescrizione.

Dicono, infatti, i giudici francesi che costoro hanno il diritto a vedersi tutelata la propria vita privata e familiare rispetto ad un’ingerenza ‒ quella dello Stato italiano ‒ che provocherebbe loro un danno sproporzionato.

Non si vuole ‒ in questi brevi note ‒ affrontare la questione relativa alla funzione della pena; certo è che, rimanendo nel solco di quanto previsto dalla nostra Costituzione (ed anche di quella francese), la rieducazione cui deve tendere ogni pena, non può prescindere dall’esecuzione della stessa, sia pure in minima parte; soprattutto quando non vi è alcun segno concreto che il condannato abbia finalmente accolto l’appello della coscienza e realizzato il male commesso.

Quel che si vuole porre in evidenza è la motivazione con la quale il supremo organo giurisdizionale francese ha liquidato la questione, incentrata su una valutazione di proporzionalità tra l’esecuzione della pena e le ricadute della stessa sulla vita privata dei condannati.

Insomma, il sacrificio che i brigatisti subirebbero per essere costretti (magari anche per poco) a lasciare le loro dimore, non sarebbe proporzionato all’esigenza prospettata dallo Stato italiano (e condivisa da quello francese) di far scontare la pena a chi ha privato per sempre della vita (e non solo della dimora familiare) uomini e donne innocenti.

Si tratta di una motivazione che va ben al di là del caso concreto.

Ed infatti, il giudizio di proporzionalità non viene circoscritto alle modalità di esecuzione della pena ‒ che devono indubbiamente tener conto delle condizioni di vita del condannato ‒ ma alla eseguibilità stessa della sanzione; sicché il fondamento di quest’ultima non è più la necessità di rendere giustizia ‒ che impone al giudice di punire effettivamente, e non solo astrattamente, le condotte criminali, di dare a ciascuno il suo, e quindi anche la pena per il male compiuto ‒, ma una mera valutazione di opportunità, rispetto alla quale scompaiono del tutto le esigenze di tutela della comunità, per lasciar posto esclusivamente alla privacy del condannato.

In definitiva, la pena viene privata di ogni aggancio alla giustizia, intesa come ordine fondante ogni consorzio civile, ed è declassata all’ambito dell’utile.

Gli effetti non sono da poco.

Essendo l’utile, per definizione, parametro difficile da ricondurre ad oggettività, esso richiederà l’intervento di un interprete, al quale spetterà stabilire se convenga o meno punire, e cioè quale debba essere il miglior interesse da salvaguardare, se quello della comunità o quello del condannato. Così facendo, sarà la pena ‒ e la sua utilità ‒ a fondare quel che rimane della giustizia e non viceversa.

Infine, la scomparsa della pena come esigenza per il colpevole di pagare il debito con la Giustizia e così emendarsi, farà inevitabilmente scomparire anche la colpa. Ma solo dalle aule di giustizia. Il senso di colpa non potrà mai essere cancellato dal cuore degli uomini, e, con esso, il bisogno di pacificarsi con sé stessi e con coloro ai quali hanno fatto un torto. Spero che di tutto questo si rendano conto i giudici che hanno liquidato con poche righe, non solo una ferita italiana ancora sanguinante, ma quel che rimane della Giustizia.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 06 aprile 2023 alle ore 12:58