Referendum: una débâcle epocale per la sinistra

I quattro gatti della sinistra e una memorabile presa per il… quorum

A dieci giorni di distanza dal voto che ha certificato per l’ennesima volta la pochezza contenutistica, l’incapacità politica e l’inconcepibile arroganza della sinistra italiana, elettoralmente al tappeto da diversi anni ma sugli scudi in quanto ad auto incensazione perenne, ecco una riflessione che in tanti farebbero bene a considerare come un consiglio spassionato e ricco di comprensione: quando vi sentirete dare lezioni di strategia politica, quando li sentirete pontificare ‒ con enfasi e finta passione ‒ sui più alti principi costituzionali di democrazia diretta, quando li sentirete bofonchiare qualcosa su avversari, fantomatici nemici o disobbedienza civile, ricordate di quella volta in cui la sinistra italiana ha speso quasi mezzo miliardo di denaro pubblico per un referendum teso ad abrogare una legge voluta ed approvata dalla sinistra stessa, scagliandosi con una propaganda sleale e bugiarda contro un responsabile immaginario (il governo cattivo di centrodestra arrivato 10 anni dopo) e mettendoci dentro – in regalo – anche 3 milioni di cittadinanze, perché riformare la disciplina in 11 anni continuativi di governo era meno popolare in termini elettorali.

Di certo meno che fare demagogia, dall’opposizione, sulle spalle dei contribuenti. Ricordate quella domenica di giugno in cui una accanita macchina da guerra ‒ e no, dalle facce crucciate dei teatranti promotori non può essere considerata neanche lontanamente gioiosa come quella di Occhetto, annientata da Berlusconi – si è schiantata contro la realtà senza protezioni; e l’imbracatura non ha tenuto.

Quando li vedrete arrabattarsi con parole vuote sul dovere del silenzio elettorale nelle 24h antecedenti il voto, quando li sentirete sperticarsi in profonde considerazioni sulle strumentalizzazioni politiche, quando li vedrete intenti a filosofeggiare con quell’aria di vanità che hanno solo loro in merito ai più nobili principi di una democrazia liberale occidentale, vi ricorderete di quella volta in cui abbiamo scientemente deciso di non prendere parte alla ridicola pantomima del Pd che ha fatto pagare agli italiani i propri regolamenti di conti.

Vi ricorderete di quella volta in cui non ci siamo fatti prendere in giro da Landini che predica il salario minimo e poi firma contratti collettivi da 5 euro all’ora. Ci ricorderemo di quella volta in cui abbiamo ribadito che la cittadinanza italiana non si regala su due piedi, si merita, difendendo il retaggio dei nostri padri, la nostra storia e la nostra identità. Ci ricorderemo di quella volta in cui abbiamo riaffermato che noi non siamo come loro. Fortunatamente.

C’è una cosa su cui Schlein aveva ragione all’indomani della sua elezione a segretaria del Partito Democratico, in un impeto di rivalsa verso le correnti di appartenenza dei suoi colleghi di partito, detrattori, che la davano per sfavorita. Era più che altro una speranza la loro, condivisibile. Era un osteggiarla pubblicamente, nella consapevole previsione che per soli 2 euro mezza Italia avrebbe votato per il candidato più debole ed improponibile per indebolire il Nazareno.

Furono facili profeti, ma Elly aveva ragione: nessuno l’aveva vista arrivare. L’ha imparato talmente bene, l’ha reso profezia e suo avverarsi – di quelle appartenenti alla specie che Berlusconi imputava agli uccellacci del malaugurio, antitaliani che dall’opposizione tifavano contro l’economia nazionale per far danno al Governo, le “self-fulfilling prophecies”, profezie che finiscono per avverarsi veramente – tanto da trasmetterlo ai suoi elettori come marchio identificativo: anche loro non sono stati visti arrivare ai seggi.

Come i bulletti che in discoteca cercano la spallata per iniziare la rissa, gli arroganti di sinistra sono andati per colpire e si sono slogati la spalla: l’unico vero obiettivo di questo referendum di partito era quello di far danno al Governo Meloni ma alla fine sono stati loro a cadere. Schiere di prodi militanti, valorosi Masanielli e appassionati leoni da tastiera, con la testa rivolta al trono ed obbedienti agli ordini impartiti dai loro capi hanno ritenuto la campagna referendaria ben riuscita e foriera di successi quando, il sabato precedente al voto, sono riusciti a portare in piazza 44 gatti in fila per 3 con il resto di 2.

Sui giornali glorificazioni matte, dichiarazioni esagerate, ambizioni sfrenate come quella ben più che fantasiosa di far cadere un governo solido. Peccato che quella piazza fosse stata organizzata, dagli stessi, per la guerra a Gaza. Lo ribadisco, mentre vi stropicciate gli occhi credendo di aver letto male: Schlein, Conte, Fratoianni e Bonelli durante la manifestazione per Gaza, il giorno prima del voto, hanno lanciato l’urlo, in pubblica piazza, per i 5 Si al referendum. Un gesto gravissimo sia perché viola un principio posto a tutela di un diritto costituzionale, sia perché strumentalizzando un dramma umanitario per aggirare il silenzio elettorale e fare misera propaganda elettorale, manca di rispetto alle ragioni per cui la manifestazione era indetta. Ma la sinistra affamata di voti è una iena che interpreta la Costituzione a proprio piacimento, come se il corretto funzionamento di una democrazia si difendesse solo quando fa comodo.

Ne hanno dette di ogni circa il dovere civico di andare a votare. Hanno decantato sapienza nell’esegesi aulica delle migliori filosofie statualiste. In realtà, per gli addetti ai lavori almeno, è evidente che, se il costituente ha inserito un quorum per la validità di un referendum abrogativo, ha inteso rendere legittima anche la scelta di astenersi. Questo perché, a differenza delle elezioni politiche o dei referendum senza quorum (nei quali, ovviamente, l’astensionismo è concretizzazione di un comportamento anti-civico), in questo caso ‒ non votando ‒ si intende lanciare il segnale politico che i quesiti referendari siano pretestuosi. Quindi, proprio per il significato politico che assume il non-voto in una competizione che preveda il quorum, ogni critica da sinistra appare quantomeno fittizia. Direi ridicola, dal momento che sono molteplici gli esempi di appuntamenti elettorali referendari promossi dalla destra nei quali è stata la sinistra stessa ad invitare (finanche per bocca del Presidente della Repubblica Napolitano) a non votare.

L’astensione al referendum non è disinteresse, è semplicemente un modo per dire no, come previso dalla Costituzione. E chi invita all’astensione ad un referendum che prevede il quorum non lo fa per ingrossare le fila dell’antipolitica ‒ come spiegava in tempi non sospetti il segretario, guarda un po’, del Partito Democratico, Renzi ‒ ma perché vuole far fallire quel referendum ritenendo che sia un errore averlo anche solo proposto.

Non votare non significa essere meno democratici: antidemocratico, al più, lo è chi vorrebbe obbligare a farlo o chi giudica moralmente l’indeciso. Si, perché durante la campagna referendaria è andata in scena la più turpe delle esibizioni figlie della cultura di sinistra: pioggia di accuse nei riguardi di chi annunciava di non presentarsi alle urne. Di essere vili e codardi, asserviti al governo. A questi santoni della partecipazione non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che ci possa essere gente con un’idea diversa dell’Italia e delle cose di cui il Paese ha realmente bisogno. Per loro non è contemplabile che qualcuno, in barba alle indicazioni, possa esercitare liberamente il diritto astenersi per dei quesiti voluti da una sparuta minoranza non rappresentativa. Per loro, chiunque non sia d’accordo con le tesi del momento (che poi variano secondo i loro interessi contingenti) non è da considerarsi alla stregua di un interlocutore con idee diverse e rispettabili; no, è solo un vigliacco, un eversore, un nemico della democrazia, un servo della Meloni e dei suoi alleati.

La retorica paternalistica che ha inondato i media e i social in questi giorni, una valanga di appelli e slogan da scuola dell’obbligo come Dovete andare a votare, I nostri antenati si sono battuti per il diritto di voto e voi non lo rispettate, rappresenta una fallacia logica: si chiama appello alla colpa. E c’è ragione di credere che in sociologia questo comportamento non paghi: al contrario, genera quale reazione diretta, la cosiddetta “reattanza psicologica”. Se dici alle persone cosa devono fare, di tutta risposta queste si mobilitano per proteggere il loro senso di libertà percepito, facendo esattamente l’opposto. Il punto è che, evidentemente, a sinistra non sanno nulla né di psicologia collettiva né di principi elementari di comunicazione.

Oggi, i quattro gatti rumorosi, dovrebbero presentarsi dimissionari presso i propri partiti: fare mea culpa ed ammettere di non saper arrivare all’elettore, di essere coscienti della propria incapacità a vincere sui temi. Non esiste più la formula secca, l’indicazione, il comando del leader che dall’alto dice all’elettore cosa deve fare: è l’elettore a suggerire al politico cosa deve dire, come deve farlo. Ma la sinistra autoreferenziale non impara, sa già tutto: e continua a credere che ciò che stabilisce essere la cosa giusta sia una verità suprema, un assunto indiscutibile. Non si è ancora allontanata dal pensiero unico come diktat, non ha ancora capito che è parte (minoritaria) del gioco, non il gioco intero: infatti sta lì, a pontificare, a pretendere che gli altri abbiano il dovere di pensarla come loro adeguandosi ai precetti imposti. Ma i paladini del voto libero che si fingono super partes e si ergono a difensori della democrazia non hanno il diritto di dire cosa gli altri debbano fare. Hanno semmai il diritto di dire cosa loro vorrebbero che gli altri facessero. Ma che abbiano almeno l’onestà intellettuale di dirlo apertis verbis, senza utilizzare centinaia di pagine social ideologicamente indirizzate o assoldando influencers.

È mai possibile che attori, cantanti e pseudo-intellettuali esprimano all’unisono sempre la stessa prevedibile opinione, per giunta sempre in contrasto col sentire comune? Teste prefabbricate che ripetono la pappardella della verità unica sempre indirizzata contro il nemico di turno.

Il dubbio che assale il professor Marcello Veneziani in una brillante analisi all’indomani del voto è che il non sentire mai un’opinione divergente dal mainstream potrebbe voler significare che chiunque dissenta, venga fatto fuori, escluso, emarginato. E dunque si preferisce tacere per non incorrere nel rischio di essere silenziati. Dinamiche orchestrate abilmente – e diventate modus operandi collaudato – da chi ha il potere di imporle. Ostracismo ed emarginazione nascondono un giudizio falso ma utile a svalutare la persona che li subisce. Reagire è innanzitutto atto di resistenza contro l’ingiustizia, nell’accezione che ne dava Judith Shklar in The faces of injustice e soprattutto via d’espiazione per esplorare strade diverse, per continuare ad affermare la propria identità senza essere obbligati a riverire chi non lo merita. È la chiave di lettura sociale per comprendere perché la gente comune esprima pareri assai diversi dai loro mentre nei circoletti dei buoni per definizione, una setta, non ci sia mai un’opinione divergente. Tutti sempre allineati a ripetere a pappagallo la stessa manfrina.

Il moto d’isteria robotica e preimpostata che ha scosso promotori e sostenitori del referendum mostra il vero volto della sinistra ‒ cosiddetta antifascista ‒ di questo paese: innamorata del confronto e della democrazia al punto tale da considerare oro colato il proprio pensiero ed etichettare quello altrui come spazzatura impregnata di ignoranza. Una strana concezione di pluralismo e confronto. Ed è così finanche all’interno di rinomate e storiche Università – antitesi della finalità della cultura ‒ dove spesso chi non è dalla loro parte non può parlare, succube della pretesa di una parte di rappresentare la totalità.

Il fascismo degli antifascisti di pasoliana memoria che oggi si annida e germoglia sui concetti anti-pluralisti per eccellenza del politicamente corretto, della censura “buonista” (qualunque cosa voglia significare “concetto buono”), della dittatura del pensiero unico che rifiuta la dialettica. Colpisce sempre – senza più stupire ‒ l’essenza di quel ben poco edificante pensiero medio di sinistra, il sentirsi “migliore” per investitura divina. È sufficiente soffermarsi sui commenti dei fan, altoparlanti e megafoni della monocultura: non tanto sul merito delle tesi che sostengono bensì sulla pretesa che non ci possano essere altre opinioni legittime. Una assurda esigenza liberticida di avere il monopolio della verità e di giudicare gli altri come servi. Sappiano, i santoni del buono e del giusto per definizione, che non sono gli interpreti unici della verità; facessero lo sforzo di capire che è legittimo il fatto che altri abbiano altre sensibilità, che giudichino diversamente. Accettino di esprimere un’opinione che vale quanto quelle altrui.

Ad ogni modo, dall’inizio di questa vicenda nessuno ha davvero capito il senso, da parte della sinistra, di presentare dei quesiti referendari abrogativi di leggi che aveva fatto la sinistra stessa alimentando però la narrazione secondo la quale il referendum si poneva come un test contro il governo: a me sembra evidente, invece, che fosse solo un referendum sulle opposizioni. Se in questi giorni doveste avvertire una maggiore umidità nell’aria potrebbe essere a causa delle lacrime nascoste dagli esponenti del centrosinistra. Difficili da percepire, a dire il vero, sono ecosostenibili anche nei numeri ma non abbastanza per impattare sul clima. Infatti, l’unica cosa certa, è che i sinistri siano molti meno di quanto millantino, o sperino. Questo referendum era davvero una chiamata alle armi per tutta la baracca e, se le truppe cammellate sono solo queste, il centrodestra può adagiarsi sulla garanzia di governare senza intoppi per vent’anni.

(*) Fine prima parte

Aggiornato il 19 giugno 2025 alle ore 16:21