
“L’avvento delle cosiddette ‘quote rosa’ ha qualcosa di buffo. Non si capisce infatti perché il principio non si debba estendere ai single o a chi è coniugato, ai figli unici o a chi ha più di tre fratelli, ai gay, ai giovani o agli anziani, ai disabili, agli occupati o ai disoccupati, ai settentrionali o ai meridionali nella loro esatta proporzione, a chi ha studiato o a chi non lo ha fatto, e così via, secondo una nuova versione del corporativismo in chiave sociologica”.
Coloro che pensano che la sociologia, assieme alla filosofia, sia la scienza con la quale o senza la quale il mondo rimane tale e quale, si sbagliano di grosso. I provvedimenti legislativi che in molti Paesi stabiliscono quote percentuali di donne che devono obbligatoriamente comparire nelle liste elettorali, dimostrano come le mode di pensiero sociologico possono essere decisamente influenti. La gender sociology, nata nelle università americane oltre vent’anni fa, ha avuto un enorme successo non tanto sotto il profilo scientifico quanto nelle sue applicazioni pratiche. Il normale rispetto per la donna in quanto persona è diventato una sorta di vessillo da ossequiare in ogni modo e circostanza, persino nella pratica dello scrivere. Per anni – ora il fenomeno è fortunatamente caduto in desuetudine – scrivendo un articolo scientifico in inglese era d’obbligo, riferendosi genericamente ad un essere umano, usare non solo il termine ‘egli’ ma anche il suo corrispettivo femminile ‘ella’, cosicché le pagine risultavano piene di he/she fino alla nausea. Entrato a far parte del linguaggio, come si dice, politically correct, l’originale e per tutti noi normale rispetto per le donne ha prodotto le regole formali, cioè le leggi, che devono consentire la loro partecipazione alla vita politica. Tali leggi, anche se criticate da più parti, sono ora presenti nei sistemi legislativi di tutto il mondo occidentale anche se nessuno ne avverte l’effetto.
Nel 2005 la solerte ONU col suo DAW (Division for the Advancement of Women) ha persino dedicato al ‘problema’ della presenza delle donne nella vita politica un apposito seminario internazionale, nel quale è stato enfaticamente dichiarato, citando una analoga iniziativa tenutasi a Pechino nel 1995, che “Senza la prospettiva femminile a tutti i livelli del decision-making, gli obiettivi dell’eguaglianza, dello sviluppo e della pace non possono essere assicurati”.
Può darsi sia vero ma, per ora, diseguaglianze, crisi e guerre continuano a succedersi nonostante la presenza ‘obbligata’ di quote rosa ovunque. Non sarà che le donne sono esattamente come gli uomini, cioè buone o cattive, animate da buoni oppure da cattivi sentimenti, oneste o disoneste, pacate o litigiose, intelligenti o sciocche? Si risponderà che limitare le quote attorno ad un umiliante 30 per cento è insufficiente. Allora portiamole al 50 per cento, o magari al 70 e nessuno, di nuovo, percepirà qualche mutamento sia esso sociale o geopolitico. Il fatto é che la realtà è ben più complessa di quanto una certa sociologia vorrebbe ed é ingenuo, oltre che inutile, volerla cambiare con gli obblighi e i misurini delle pianificazioni. In particolare di quelle ‘etiche’.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:07