
Le elezioni amministrative di domenica cambiano verso all’Italia. Se è vero che ogni città fa storia a sé, è purtuttavia possibile scorgere un filo rosso che tiene insieme le motivazioni di un voto solo in apparenza disomogeneo. Sapete com’è finta. La visione renziana del Paese non convince e i suoi rappresentanti fanno fatica a imporsi. Delle cinque grandi città chiamate al voto, in nessuna il candidato renziano è riuscito a passere al primo turno.
A Napoli Valeria Valente non va neanche al ballottaggio. Ma se il Partito Democratico non l’ha spuntata ed è in affanno, chi ha vinto il primo turno? Certamente i Cinque Stelle hanno realizzato un risultato significativo a Roma con Virginia Raggi e a Torino con Chiara Appendino. Questo però non basta perché si possa parlare di un’onda montante che spingerebbe il movimento di Grillo a trionfare alle prossime politiche. Nella maggioranza delle piazze elettorali i Cinque Stelle non sfondano. È però reale il consolidamento di un trend che segnala un rigetto nei confronti di forze e partiti troppo appiattiti sui diktat calati da Bruxelles. Benché non siano meccanicisticamente sommabili, tuttavia il dato dell’astensione, il risultato complessivo dei Cinque Stelle e quello delle componenti radicali di destra e di sinistra restituiscono l’immagine di un Paese che maggioritariamente rifiuta il giogo della “Grosse Koalition” declinata in salsa nostrana. Ciò che tiene in piedi Renzi è che mele e pere non si possono mischiare. Ma questo è anche il problema del centrodestra. I commenti che si ascoltano in queste ore sono del tipo: dove si presenta unito vince, dove è diviso perde. Allora, basta sommare per risolvere tutto? Se questo turno elettorale ha insegnato qualcosa alla politica è che le ammucchiate non pagano.
Accanto al fattore quantitativo è necessario affiancare l’elemento qualitativo, costituito dal progetto con il quale ci si presenta agli elettori. Non serve mettersi tutti insieme per fare risultato se poi la si pensa in modo diametralmente opposto sulle cose che contano. Se si vuole essere creduti occorre spiegare perbene alla gente per cosa ci si unisce. Stefano Parisi a Milano, vincolando forze del centrodestra non omogenee all’attuazione di un programma credibile, è riuscito a convincere una rilevante fetta di elettorato. La medesima operazione, a Roma, non ha funzionato. Alfio Marchini, di là dalla concorrenza di Giorgia Meloni, non è stato creduto dai cittadini della Capitale. Mai come prima questo è stato il voto delle periferie. Se i quartieri-bene delle metropoli hanno votato, pur con una certa pigrizia, i candidati renziani, le città-satellite che gravitano intorno ai grandi nuclei urbani hanno puntato su chi rappresenta la rottura rispetto all’establishment che tiene in pugno il governo del paese. Per restare a Roma, non è irrilevante che la Raggi e la Meloni abbiano fatto il pieno nelle borgate e nei municipi popolari mentre il piddino Giachetti abbia prevalso ai Parioli. Qualcosa vorrà pur dire.
Il messaggio che giunge dalle urne di domenica deve essere raccolto da coloro che, centrodestra in primis, vogliano sconfiggere Renzi nel prossimo futuro. Bisognerà che Berlusconi, Salvini e Meloni facciano tesoro dalla lezione impartitagli dagli elettori per comprendere che se non si riparte dalla ricostruzione di una comunità di destino del centrodestra, nessuna aritmetica potrà restituirgli il ruolo di protagonista in uno scenario politico che da bipolare si è evoluto in tripolare. Non siamo ai titoli di coda, c’è ancora un futuro per chi non vuole morire renziano o grillino. L’importante è che chi ha in mano il boccino del pur auspicabile “rassemblement” ne sia consapevole e, d’ora in avanti, compia passi nella giusta direzione. E coerenti.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 16:44