
È sconcertante, seppur prevedibile in questa fase politica segnata dal totalizzante asservimento della politica di governo ai grandi interessi di cui Matteo Renzi è consustanziale espressione, che il coté mediatico filogovernativo, quello col pedigree a posto, e la stragrande maggioranza dell’universo del web abbiano gridato al forcaiolismo contro la povera ministra Boschi. E che lo abbiano fatto in nome di un garantismo francamente, questo sì, peloso. Solo perché alcune voci hanno avuto l’improntitudine di formulare sacrosante domande su quali siano le eventuali responsabilità governative nella e nel Salva banche… Tutti fomentatori di odio, rancorosi propagandisti grillini, allineatisi sulla viscida scia di Saviano. Ora se è bene opporsi senza esitazioni al massacro, respingere con tutta la forza i processi di piazza ed i linciaggi e dunque considerare francamente inopportuna richiesta di dimissioni per la Boschi, su cui si sono gettate le opposizioni , prima che siano state accertate le rispettive responsabilità. Ma può passare il principio secondo cui non è legittimo formulare domande scomode ad un ministro, che non è un semplice cittadino ma rappresenta il governo che si sta occupando di salvare gli istituti di credito commissariati per cattive pratiche di amministrazione, mentre al momento gli unici ad aver pagato un pesantissimo prezzo sono quei risparmiatori che nei titoli e nelle obbligazioni subordinate proposte loro da quegli istituto hanno investito i risparmi di un’intera esistenza e che ora si vedono davanti la possibilità di esser risarciti di una misera percentuale delle somme perdute? Ecco, scagliarsi con tanto furore contro chi chiede chiarimenti, anche in modo veemente, circa la gestione di un sistema bancario che, come ha asserito il senatore Massimo Mucchetti, “erano marce”, ed in una delle quali, tra l’altro, attenendosi al principio di realtà, lavoravano con cariche apicali sia il babbino che il fratello della ministra Boschi, non può corrispondere a tuffarsi nell’alveo di un malinteso giustizialismo forcaiolo, del linciaggio e dei processi di piazza. Perché il passo che conduce alla censura è brevissimo. Non ci si può stare. Ne va di una manciata di principi democratici.
Oltretutto, quello di cui si è impugnata ed agitata la bandiera, appare francamente un classico esempio di garantismo peloso, scoccato all’unisono, quando in ben altre occasioni il silenzio ha imperato e seguita ad imperare sovrano, specie se si tratta di accanirsi mediaticamente su un singolo processo che consenta al pessimo sodalizio mediatico giudiziario di infilarsi nelle lenzuola e nei costumi sessuali degli interessati e di formulare giudizi etici, tralasciandone al contrario altri procedimenti altrettanto se non più ‘interessanti’ sotto il profilo pubblico. Tornando al caso Boschi tra il necessario rifiuto del linciaggio e la censura esiste, però, un ampio margine di democratico esercizio di espressione che rende più che legittimo chiedersi e chiedere all’esecutivo se ed in che misura abbia agevolato gli istituti di credito o se vi sia una confluenza di interessi anche alla luce dell’innegabile coincidenza che vede sia il fratello sia il babbo della ministra Boschi aver ricoperto ruoli apicali all’interno di una delle banche “salvate” dal governo. Tutto questo dovrebbe esser dato per acquisito in una democrazia che non voglia scivolare in una pratica censoria. Quella di cui, peraltro, si riscontra qualche avvisaglia nel momento in cui le due principali agenzie di stampa italiane, prima di pubblicare interviste o interventi che possano risultare scomodi nei confronti delle politiche dell’esecutivo, chiedono il via libera in rete a Palazzo Chigi. Quanto a chi ha esaltato come unica voce civile quella di Raffaele Fitto quando, che, con avvertimento senz’altro corretto, ha avvertito il centrodestra di che madornale errore sarebbe seguire lo scrittore Saviano nel chiedere le dimissioni della ministra Boschi (cosa che poi hanno erroneamente annunciato di voler fare) buttandola sul giustizialismo becero, forse è bene chiarirgli le idee sulla natura opportunistica della mossa del leader di Conservatori e Riformisti e prendere atto che la motivazione della linea da lui adottata risiede tutta nell’opportunità colta per smarcarsi dalle opposizioni. Si chiama politica, sì, tattica politica.
Da tutta questa vicenda trionfa una sola regola, che conflitto di interessi e garantismo sono due variabili da invocare a seconda che si parli di amici intoccabili o di nemici da abbattere. Un “faziosissimo”, ma lecito, dubbio: quali sviluppi e ripercussioni avrebbe avuto il medesimo caso se al posto della Boschi si fosse trovato un ministro di un governo di centrodestra? La “faziosissima” risposta è che sarebbe stato letteralmente massacrato proprio da quella ridda che oggi brandisce con tanta veemenza lo stendardo di un garantismo che, va ripetuto, non può che qualificarsi, per come si sta palesando, che come peloso e incline a silenziare le voci critiche.
Ecco, l’esercizio del garantismo a correnti alternate è, però, altrettanto “schifoso”, tanto per restare sul registro lessicale adottato dal premier alla Leopolda, quanto chi cavalcherebbe in modo strumentale la morte del pensionato che si è tolto la vita dopo la perdita dei risparmi affidati alla banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Non basterà una commissione di inchiesta sul sistema bancario ad arginare l’avviata crisi, o per lo meno la prima consistente crepa del renzismo e del suo modello cesarista incardinato sulla fedeltà della corte al granduca. Le cui scomposte, estreme ed infuriate parole pronunciate dal premier alla Leopolda rappresentano l’evidente segnale della difficoltà in cui inizia a trovarsi, l’ultima rappresentazione plastica di un’arroganza che non può appannare all’infinito i cardini della democrazia. Nonostante gli indefessi soccorsi della stampa allineata e l’appoggio del sistema di potere che di cui Renzi è espressione e che è incaricato di seguitare a garantire.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30