Il cane Diesel alla guerra delle parole

Contro l’anomalia del nostro tempo chiamata Stato Islamico c’è una guerra da combattere che ha molte facce. Non è soltanto guerra di eserciti, ma anche di assassini che si muovono nell’ombra per colpire il nemico alle spalle. È guerra mediatica, fatta per immagini ed effetti speciali, storytelling inventati per terrorizzare il nemico. È guerra di social e di tweet che inondano la Rete per simulare la potenza dei numeri. Come le vacche di Mussolini. È guerra d’armi e di denari, di flussi di banconote che scorrono nelle cavità carsiche di un capitalismo finanziario internazionale che ha preso troppo sul serio la leggenda metropolitana della “pecunia non olet”. Non sarà lo sterco del diavolo, ma il denaro ha colore e odore e su di esso restano impresse le impronte della dita che lo hanno maneggiato. È guerra d’interessi, che serve a coprire i veri proponimenti che ogni pedina di quest’oscuro gioco coltiva dietro il velo liso delle dichiarazioni ufficiali.

Ma è anche guerra di parole. Parole che sono pietre, come scriveva Carlo Levi. Parole che confondono la mente. Parole che raccontano storie. Parole che segnano confini esistenziali. Eppure, a questa faccia della guerra non abbiamo prestato la giusta attenzione. Ed è un male perché mai potremo avere contezza del nostro nemico se non impariamo a comprendere cosa le parole trasmettono. Perché le parole significano. Conferiscono senso a qualsiasi comportamento. Le parole del nemico come le nostre.

Un esempio. Il mainstream del politicamente corretto associa il metodo di aggressione dei jihadisti alla categoria concettuale degli “animali”. Sbagliato! I terroristi di Parigi non sono “animali”. È un accostamento improprio che non si addice alle qualità degli esseri senzienti non umani. Se proprio li si vuole associare a una specie vivente, che la si scelga con cura tra le forme di vita inferiori. Dei terroristi si è detto anche che sono “cani”. Quale idiozia! La nobiltà del più fidato compagno dell’uomo, la sua capacità intuitiva, la consapevolezza del proprio ruolo, non sono per nulla paragonabili ai tratti caratteriali di esseri che per agire hanno bisogno di sostenersi con gli stupefacenti. Si prenda il caso del blitz di Saint Denis dove si sono travate faccia a faccia due personalità: quella perversa e drogata della terrorista Hasna Aitboulahcen e il cane poliziotto Diesel, femmina di pastore belga Malinois, che per prima è entrata nel covo criminale. Diesel è stata uccisa da Hasna che le ha sparato contro una raffica di mitra prima di farsi esplodere. La cagnetta era cosciente del rischio che correva nello svolgere la missione che il suo compagno umano le aveva assegnato. Tuttavia non si è tirata indietro, non è fuggita davanti al pericolo, ha fatto il suo dovere fino in fondo ed è uscita dal covo con le ultime forze che le restavano per poter morire tra le braccia del suo amico.

Chi è l’eroina della storia? La vile Hasna che cerca di attrarre a tradimento i poliziotti per coinvolgerli nella sua missione suicida o Diesel che ha onorato con la vita il patto stretto con il suo compagno-addestratore? Qualcuno dirà: sì ma Hasna è un essere umano. Sarà così per la biologia o per la fede religiosa, ma per quanto ci riguarda nulla ci accomuna a quell’assassina, la cui natura umana non è uguale alla nostra, ma tutto ci porta a piangere la generosità di quell’essere speciale a quattro zampe. Allora non chiamateli animali, gli assassini di Parigi. Non sono leoni, neppure tigri o giaguari. Né aquile, ne falchi. E neppure serpenti perché non sono utili e non sono belli. Sono solo scarafaggi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30