Afghanistan: conflitto post-moderno e tradizione tribale

L’Afghanistan è stato negli ultimi 20 anni, conclusisi con la presa di Kabul da parte dei talebani, teatro di una guerra soprattutto culturale, di uno scontro di civiltà di nuovo tipo, “post-moderno”.

Si confrontavano da una parte l’individualismo occidentale in versione post-moderna e nichilista, portatore sì di diritti individuali, ma anche di pensiero debole iper-relativista eticamente indifferentista e disorientante, oltre che di meri “modelli tecnico-organizzativi”; dall’altra c’era il tribalismo tradizionalista (sostenuto dovunque, in maggior o minore misura, dalla religione islamica), garante di identità forte, di conservazione dell’ordine (sociale e sessuale) ancestrale e di continuità nella catena di trasmissione culturale tra le generazioni passate e quelle future.

Ha vinto il tam-tam della tradizione tribale e patriarcale nella sua versione più fondamentalista, maschilista e misogina. Ha vinto il grido millenario di dolore della tribù (e del tribalismo) contro la rottura dei legami, dei lignaggi, delle gerarchie sociali (e sessuali) ancestrali rappresentata dall’individualismo liberale in versione post-moderna. In Afghanistan quest’ultimo ha straperso la partita, ma solo perché, nelle sue versioni post-moderne, relativiste e nichiliste, l’individualismo non risponde più alla domanda fondamentale dell’esistenza: quella sul “senso” della vita, che innanzitutto chiede “chi sono?” (a partire dalla prima domanda del bambino, “che sesso ho?”, cfr. Jacques Lacan, “Lo stadio dello specchio”).

Aggiornato il 23 agosto 2021 alle ore 10:27