Donald Trump: the golden age

Donald Trump ha giurato da 47° presidente degli Stati Uniti d’America. La nostra sensazione è che d’ora in avanti, grazie a lui, l’Occidente sarà un posto migliore in cui stare. E al quale appartenere. Sia chiaro, non coltiviamo alcuna illusione sulla possibilità che The Donald possa fare l’ecumenico e tirare indietro gli interessi americani a vantaggio di tutti gli altri popoli del mondo. Italiani compresi. America first, sotto la sua presidenza, non sarà un semplice slogan propagandistico, ma qualcosa di molto concreto che costringerà tutti su questo pianeta a fare i conti con sé stessi, con la propria voglia di costruire il futuro senza dover aspettare che qualcun altro se ne faccia carico. O se ne preoccupi. C’è forse qualcosa di sbagliato in questo? A chi finora ha campato di rendita, contando sugli interventi salvifici dallo zio paperone americano, la svolta non sarà gradita. Gli toccherà rimboccarsi le maniche.

Questa sì, pessima notizia per i parassiti e gli sfaccendati. Ma non per gli spiriti liberi, che credono nel lavoro e nella forza delle idee per cambiare il proprio destino. Il discorso trumpiano, dalla tonalità a metà strada tra l’assertivo e il messianico, di certo non sarà piaciuto alle anime belle del progressismo europeo. Loro, che nella vecchia Europa conservano ancora un grande potere, si erano abituate a mangiare a sbafo dal piatto dell’amico d’Oltreoceano. Come nel caso della cooperazione in ambito Nato: negli anni in cui la sinistra ha governato i Paesi occidentali ha giocato ad ammiccare ai pacifisti disinteressandosi di sostenere i necessari e non più prorogabili investimenti nel comparto della Difesa, forte del fatto che a fare le spese della sicurezza dell’Occidente sarebbero stati i denari dei contribuenti americani. C’è da scommettere che Trump convocherà i partner della Nato per dire loro una cosa molto semplice: volete l’ombrello militare Usa per dormire sonni tranquilli? Pagate! Sui minacciati dazi ai prodotti esportati negli Stati Uniti che sono in quantità di gran lunga maggiore di quanti non ne vengano importati di produzione americana, stesso discorso: se volete fare affari con noi occorre che vi sia reciprocità, altrimenti vi penalizziamo.

Questo si chiama fare l’interesse nazionale. E nessuno può dare del pazzo o del criminale a Trump se questi mette in cima alle priorità dell’azione di governo il benessere e la prosperità della sua gente piuttosto che quelle degli altri. Eppure, di là da ciò che il neo presidente farà per gli americani, c’è qualcosa – e tanto – che Trump si predispone a fare per tutti noi. Il discorso reso all’umanità all’atto del giuramento ha il pregio di restituire una visione a un mondo occidentale finito malamente sotto la cupa oppressione, con accenti fustigatori al limite del savonaroliano, del politicamente corretto e del revisionismo culturale del woke. The Donald ha indicato a noi tutti la strada per ripristinare la verità storica perché smettessimo di farci del male. Trump abiura l’assurda criminalizzazione del nostro passato di “bianchi”; mette un freno all’insopportabile dittatura delle minoranze elitarie con il loro stucchevole portato di universalistico buonismo; abbatte l’esiziale deriva gender e ripristina il binomio maschio-femmina a fondamento della costruzione delle comunità umane; dichiara la morte del Green deal e della follia ambientalista che ha indotto gli occidentali all’autocastrazione nell’approvvigionamento energetico da fonti fossili. Donald Trump ha promesso ai suoi concittadini il pugno duro per bloccare il pernicioso fenomeno dell’immigrazione illegale negli Stati Uniti.

Userà le maniere forti per rispedire indietro chi non ha diritto a stare in una nazione che non lo ha autorizzato a entrare. Perché, nella sua Weltanschauung (visione del mondo), parole come patria, confine, identità, rispetto delle regole, civiltà, vivono di senso concreto in una palpitante attualità. Trump ha mostrato al mondo che essere conservatori e sovranisti si può, e dichiararsi tali non è affatto disdicevole o motivo di vergogna, come per troppo tempo hanno fatto credere i detentori della verità progressista. Al contrario, conservazione e identità nazionale sono insieme la luce e il faro che illuminano la via all’Occidente perché non si smarrisca nelle tenebre di un pensiero nichilista, debole, crepuscolare. Lui ha promesso ai suoi l’avvento di una nuova età dell’oro. Cioè, per stare alla mitologia esiodea, restituire al suo mondo il tempo conosciuto dall’umanità ai primordi sulla Terra e segnato dalla pace, dall’armonia, dalla stabilità e dalla prosperità.

Un tempo che fonde momenti di sacralità a comportamenti profani e nel quale il divino rinsalda l’alleanza con l’umano. Un tempo in cui il nichilismo negativo viene spedito a vivere nelle lande deserte e inospitali del relativismo ateo, mentre la speranza torna a issare al vento le sue bandiere per una nuova escatologia dell’uomo di fede in Dio, nella patria, nella famiglia. Un tempo nel quale l’uomo restituisce a un Dio tradito e dichiarato morto il posto che gli compete al centro della Storia, nel mentre si riappropria della volontà egemonica nello di sfidare le leggi della fisica e della ragione per raggiungere l’impossibile. L’uomo trumpiano, che si rende simile a Dio, è in questo aspetto del tutto simile a quello cantato da Leonard Cohen nel suo Hallelujah. Se sessant’anni orsono un altro presiedente – John Fitzgerald Kennedy – aveva trasposto nella conquista della luna l’incarnazione del sogno americano, oggi quel medesimo sogno, grazie a Trump, si riconosce nelle fattezze fantascientifiche dell’impresa di andare su Marte a piantare la bandiera a stelle e strisce.

E in un’America che riscopre il valore propulsivo per l’evoluzione sociale della disuguaglianza tra esseri umani, il discrimine caratterizzante gli uomini differenziati è quello del merito individuale, che tuttavia rifugge e ha in spregio ogni altra discriminazione fondata su fattori biologici e razziali. Cosicché, il sogno trumpiano si promette di vivificare quello indimenticato di Martin Luther King e del suo celebre I have dream, pronunciato il 28 agosto 1963 durante il discorso tenuto davanti al Lincoln Memorial di Washington. Ieri l’altro, Trump ci ha entusiasmato e, da occidentali fieri della propria storia, anche inorgoglito. Di sicuro ce lo siamo goduto pensando al travaso di bile che deve aver colpito il popolo degli orfanelli di Kamala Harris e del progressismo dalle apparenze beneducate, ma nella sostanza violento e prevaricatore della libertà, che dimora su entrambe le sponde dell’Atlantico. Riguardo ai destini dell’Europa, risorge in cuor nostro l’auspicio che, mutuando la vocazione dell’Alfieri (Vittorio) del giorno verrà, anche dalla nostra plaga venga spazzata via, come molesta fanghiglia posatasi a rendere insidiosa la strada verso il futuro, l’orrenda subcultura del progressismo e dei suoi mostruosi figli: il politicamente corretto, la cancel culture, il revisionismo woke.

Aggiornato il 22 gennaio 2025 alle ore 10:04