Purghe, licenziamenti e ora anche scomuniche: il caso Viganò

Colpo di testa o di teatro del sovrano assoluto Bergoglio?

Venerdì scorso, 5 luglio, è arrivata la decisione che tutti i vaticanisti si attendevano e che molti all’interno delle gerarchie ecclesiastiche temevano: Monsignor Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, è stato scomunicato da Papa Bergoglio. In realtà, formalmente, questo provvedimento estremo è stato comminato dal Dicastero per la Dottrina della Fede, presieduto oggi dall’alter ego (argentino e gesuita pure lui) del Pontefice regnante, il cardinale Victor Manuel Fernández, detto Tucho. Lo stesso che qualche anno fa scrisse un libro dedicato all’estasi del bacio e che, dopo il relativo scandalo scoppiato quando questo volumetto al limite del pornografico fu scoperto da alcuni giornalisti, fece di tutto per ritirarlo dal commercio, tant’è che il mirabile pamphlet erotico è oggi introvabile anche su Amazon. Giusto per dare l’idea del personaggio che siede oggi al posto che fu per oltre due decenni di Joseph Ratzinger. Il quale Ratzinger, ringraziando Dio, non è riuscito a vedere questo losco personaggio a capo della Dottrina della Fede perché Bergoglio ha atteso che Benedetto XVI morisse prima di attuare il colpo di mano all’ex Sant’Uffizio.

Venerdì scorso, si diceva, la bomba è stata lanciata con un bollettino della sala stampa della Santa Sede che recitava così: “In data 4 luglio, il Dicastero per la Dottrina della Fede si è riunito per concludere il Processo penale extragiudiziale a carico di S.E.R. Mons. Carlo Maria Viganò, arcivescovo titolare di Ulpiana, accusato del delitto di Scisma”. Il comunicato poi proseguiva: “Sono note le sue affermazioni pubbliche dalle quali risulta il rifiuto di riconoscere e sottomettersi al Sommo Pontefice, della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti e della legittimità e dell’autorità magisteriale del Concilio Vaticano II” per poi concludere che, “all’esito del processo penale, S.E.R. Mons. Carlo Maria Viganò è stato riconosciuto colpevole del delitto di Scisma. Il Dicastero ha pertanto dichiarato la scomunica latae sententie ex can. 1364 comma 1 del Codice di diritto canonico. Questa decisione è stata comunicata a Mons. Viganò in data odierna, 5 luglio 2024”.

Da questa comunicazione, oltre ad una sintassi un po’ strampalata, emergono due elementi, il primo: Viganò è stato condannato in contumacia – peraltro in un “processo” lampo durato meno di due settimane – senza la sua presenza (da tempo ha fatto perdere le sue tracce, parla solo a mezzo social o YouTube, ma si presume sia nascosto e protetto negli Usa) e senza la possibilità di difendersi o di argomentare il suo dissenso nei confronti di Bergoglio. Il secondo: la scomunica inflitta è latae sententiae, cioè di fatto; quindi, non si capisce bene a cosa sia servito questo processo farsa se per l’accusa rivolta a Viganò il Codice di diritto canonico stabilisce che chi commette questo (presunto) reato è automaticamente fuori dalla Chiesa. Misteri di una Fede ormai interpretata ad immagine e somiglianza del gesuita argentino, intendendo stavolta quello vestito di bianco. Ed è proprio lui, Bergoglio, che, come sua abitudine, ha lanciato il sasso e nascosto la mano, trincerandosi dietro l’ex Sant’Uffizio e facendo finta di non essersi minimamente interessato della cosa, lasciando carta bianca al Dicastero. Così non è, anzi. Mi è stato riferito da numerose fonti autorevoli che, quando Bergoglio chiamò alla Dottrina della Fede Tucho Fernández, questi chiese espressamente al Papa – e pare se lo sia fatto mettere nero su bianco – di non occuparsi delle questioni disciplinari, probabilmente anche per una sua personale strategia che guarda al futuro Conclave. In effetti, per il caso Viganò, sembra acclarato che la spinta verso una rapida scomunica sia stata impressa proprio da Bergoglio e non da Tucho, che anzi avrebbe cercato di dissuadere il Sovrano dall’ aprire un altro fronte di polemica assai stuzzicante per i giornalisti e per l’ala conservatrice all’interno della Chiesa. Niente da fare: quando Bergoglio prende una decisione non ascolta il consiglio di nessuno, anche perché, in realtà, non si fida più di nessuno. L’accusa, il reato di Scisma, rientra proprio nel suo progetto: accelerare il più velocemente la pratica e togliersi finalmente dai piedi l’arcivescovo dissidente.

Senza scomodare la buonanima di Enrico VIII e la nascita dell’anglicanesimo e neppure ripercorrere gli avvenimenti storici che portarono al grande Scisma d’Occidente a cavallo tra il XIV e XV secolo, è abbastanza noto anche a chi di cose vaticane non s’intende, che uno Scisma avviene quando uno o più personaggi interni o esterni alla Chiesa creano una propria confessione religiosa, “scismando” ovvero prendendo una parte di fedeli da quella cattolica e non riconoscendo più l’autorità della Sede Apostolica di Roma. Monsignor Viganò non ha fatto nulla di tutto questo perché non solo non ha creato una propria confessione o setta spirituale o religiosa, ma non ha nemmeno disconosciuto l’autorità del Pontefice di Roma ma, invece, ha solo aderito alla lunghissima lista di teologi, storici, giornalisti e anche tanti esponenti interni alla Chiesa che non riconoscono come valida l’elezione di Jorge Mario Bergoglio in quel tanto chiacchierato Conclave d’inizio marzo 2013. Dubitare della legittimità di questo Pontefice in particolare e non disconoscere l’autorità della Sede Apostolica come istituzione millenaria non è essere scismatici, non lo è per numerosi canonisti e non lo è per il buon senso interpretativo del Codice di diritto canonico stesso. Altrimenti oggi, viste le critiche rivolte da più parti all’operato di Bergoglio, l’elenco dei personaggi da scomunicare sarebbe lunghissimo. Poco sopra ricordavo che a Viganò non è stato concesso né il dialogo, né il confronto. Mi corre quindi l’obbligo di ricordare quel che accadde tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, quando ad un altro famoso arcivescovo, Monsignor Marcel Lefebvre, venne comminata la scomunica da parte di Giovanni Paolo II. Lefebvre, che pure aveva partecipato attivamente al Concilio Vaticano II presenziando a tutte le sessioni e prendendo spesso la parola di fronte all’intera assemblea, verso la fine degli anni Sessanta aveva cominciato a dubitare della bontà delle decisioni prese in Concilio. Qualche anno dopo, decise di creare una sua Chiesa (quella sì scismatica) ad Ecône, nella Svizzera francese, ordinando preti e perfino consacrando cinque vescovi. La nuova confessione di Lefebvre fu chiamata, non a caso, Fraternità S. Pio X dal nome del pontefice (Giuseppe Sarto, Pio X, 1903-1914) che più di tutti si era battuto contro il dilagare del Modernismo e contro cui aveva perfino emanato un’enciclica, la Pascendi dominici gregis del 1907. La scomunica a Lefebvre arrivò nel 1988 dopo l’ordinazione episcopale citata poco sopra e non autorizzata dalla Sede Apostolica di Roma. Ma per tutti gli anni Settanta e fino a questa drastica decisione, sia Paolo VI che Giovanni Paolo II cercarono ed intrapresero in tutti i modi possibili un dialogo con Monsignor Lefebvre. Questi venne a Roma diverse volte e fu ricevuto da entrambi i pontefici nel tentativo di scongiurare una divisione che avrebbe fatto male a tutti. Questo trattamento non è invece stato riservato a Monsignor Carlo Maria Viganò. Lefebvre morì nel 1991 e non fece in tempo ad assistere alla revoca della scomunica ai lefebvriani attuata da Benedetto XVI nel 2009.

Anche la scomunica a Viganò potrebbe essere un giorno revocata, lo mette nero su bianco il Dicastero per la Dottrina quando specifica, nel comunicato sopra citato, che “la rimozione della censura in questi casi è riservata alla Sede Apostolica”, cioè al Papa. Non sarà Bergoglio a farlo, possiamo esserne quasi certi, ma confidiamo in un futuro Pontefice che abbia un pizzico in più di ragionevolezza.

Aggiornato il 08 luglio 2024 alle ore 14:16