Sembra facile, come si diceva a Carosello. Ma il discorso, o meglio, il parlare – spesso e vanvera – sulla giustizia non sembra aver mai fine. Innanzitutto, perché è proprio questa giustizia per così dir all’italiana che non smette mai di occuparsi di tutti noi. Chiedersi, dunque, il perché non sia una oziosa domanda e neppure una provocazione, ma soltanto una necessaria fase della stessa vicenda, appunto, all’italiana che scorre quotidianamente con noi.
Del resto, la cosiddetta prova del nove di questo nostro discorso si trova giorno dopo giorno persino nella più superficiale lettura di un qualsiasi giornale, che sembra spesso in concorrenza con gli altri – e anche con sé stesso – nell’illustrare accadimenti, per di più agli inizi e comunque in via di completamento. E che riguardano, in genere, persone note. Preferibilmente politiche.
Il caso La Russa jr è l’ultimo in ordine di tempo che nutre i nostri mass media (ma pare sia così anche in altri Paesi, ma ne dubitiamo) senza, tuttavia, aggiungere alcunché rispetto al déjà-vu e, in moltissimi casi, senza la necessaria riflessione su un vero e proprio “fenomeno” come questo. E ha un bel ribellarsi un quotidiano come il nostro, in cui un lucido Claudio Romiti ha detto ieri pane al pane e vino al vino, a proposito dell’andamento della giustizia della quale il minimo che potremmo aggiungere è che si sa quando parte (ufficialmente ben inteso) ma mai quando arriva. C’è una risposta, come stiamo dicendo, a questo – o meglio – ve ne è più d’una. Ed è diluita nel corso degli anni. Anzi, dei decenni. E che ha come presupposto la non responsabilità di chi giudica fin dall’avviso di garanzia.
Si dirà che l’introduzione per legge di una qualsiasi responsabilità del pm sarebbe di intralcio, per non dire di peggio, alla libertà di indagine in campo politico prevalendo, ma spesso sbagliando, il famoso pensiero di Hannah Arendt secondo la quale la sincerità non è annoverata fra le virtù politiche a differenza delle menzogne.
Ma noi vorremmo mettere l’accento su una questione, già accennata da Il Riformista, offerta dalla Procura della Repubblica di Firenze, secondo la quale, più o meno, le stragi del 1993 erano di sostegno al successo di Silvio Berlusconi. Ora, se un pensiero del genere attraversasse la mente di un qualsiasi giornalista, ne prenderemmo atto come dell’ennesima boutade del solito nemico di Berlusconi (anche post mortem). Ma messo su carta procuratizia, non può non suscitare qualche preoccupazione. Non tanto o non soltanto per un’accusa, priva tra l’altro di qualsiasi prova, ma per una e vera e propria intromissione nella stessa storia italiana nel tentativo di riscriverla.
Non deve essere sfuggita questa entrata a gamba tesa alla stessa premier che, come da copione, non ha risposto direttamente, riservando semmai indignazione e stupore per l’imputazione coatta contro il sottosegretario Delmastro Delle Vedove respingendo la richiesta archiviazione dalla Procura. Non c’è molto da stupirsi, diciamolo ad alta voce, come sempre. Vale a dire da decenni. Ed è ormai una consuetudine retorica quella di fermarsi, come purtroppo accade anche oggi, alla ovviamente giusta critica nei confronti di un operato con luci e ombre di cui si mostrano i limiti, per così dire vistosi.
Dichiarare, se non condannare, un “male” e la sua frequenza non ne è la soluzione. Ma, al contrario, una quasi noiosa presa d’atto di una incurabile malattia. Nulla di non curabile se si sceglie il percorso delle riforme. Ma non a parole, come in tutti questi anni.
Aggiornato il 17 luglio 2023 alle ore 10:04