Perché una Destra liberale

Il 4 febbraio 2023, terremo a Roma il Congresso della Destra Liberale Italiana. Perché, in un panorama già così ricco di movimenti, partiti, associazioni, tenacemente insistiamo in una testimonianza particolare a cui sentiamo di essere fortemente legati? Vi sono tre ordini di considerazioni da fare sulle motivazioni della necessità di una Destra liberale, da quelli più classicamente storici, a quelli nuovi e postmoderni, a quelli di scelta di schieramento politico. Partiamo dai primi.

In tutto il mondo si discute, continuamente, ma sempre caso per caso, se, da parte di uno Stato, ci sia o meno convenienza a imporre un divieto o un obbligo, a imporre limiti alla proprietà privata o a statizzare un’impresa, a imporre o meno regolamenti e stili di vita, a fare un intervento militare o la pace. La convenienza, in termini di potere e di realpolitik, è il criterio base che guida scelte anche fondamentali. Noi riteniamo che invece il problema vada posto prima di tutto in termini di diritto. Al di là della questione contingente in esame, che può essere di portata generale come un vincolo imposto alla proprietà privata delle abitazioni o la statizzazione di una grande industria, o di interesse locale come un’ordinanza o un esproprio comunale o ancora sulla effettiva democraticità di una legge elettorale, è in termini di diritto che un liberale vuole sia posto il problema. Per un liberale non è solo questione se sia o meno conveniente che il potere pubblico (anche il più democratico) imponga una scelta, ma prima di tutto se e quando abbia il “diritto” di farlo. E due, per noi, sono i criteri fondamentali da tenere presenti, uno è il giusnaturalismo, l’altro la definizione di Stato. Il positivismo giuridico ci ha abituato a credere che una legge sia sempre legittima, purché presa da un’autorità legale e coerente col restante corpo delle leggi, scordando del tutto quel giusnaturalismo, che, col pur difficile richiamo ai diritti naturalmente esistenti, costituiva comunque un valido argine alle maggiori degenerazioni. I principi fondamentali di libertà personale sono innati e non possono mai essere negati, neanche democraticamente, allo stesso modo che due naufraghi non possono mangiarsi il terzo anche se lo decidono a maggioranza. “Portare tutto il popolo al governo di se stesso” oggi non viene più correttamente inteso come massimo possibile autogoverno di ognuno su se stesso e il proprio ambito, come dovrebbe in una società aperta, ma come delega totale in bianco alla struttura astratta, chiamata Stato, mentre chi esiste realmente cioè il governo e la sue burocrazie, impone a tutti i cittadini – esaltando come prima virtù civica l’obbedienza – quelle che sono le volontà e gli interessi dei gruppi organizzati di potere (e la tendenza sembra volersi estendere fino a ipotizzare in prospettiva, l’incubo del Super Stato mondiale). “In materia di potere, smettiamola di credere alla buona fede degli uomini, ma mettiamoli in condizione di non nuocere con le catene della Costituzione” ammoniva Jefferson. Del concetto di Stato, ereditato dal pericoloso e schematico idealismo tedesco (padre di molte dittature) occorre negare alla radice la natura sovraordinata e autonoma, idealizzata come “tutti noi” quasi in maniera metafisica, ammettendo invece la reale e larga coincidenza tra Stato e governo, riconoscendo cioè che non esiste un ente astratto – lo Stato – rappresentante tutti noi che diviene in tal modo “etico”, ma solo una struttura (dal governo nazionale, ai locali) che va il più possibile limitata, perché certamente necessaria, ma inevitabilmente personale e tendenzialmente autoritaria.

Pago le tasse al governo, usavano dire gli americani e anche in questo sta (o forse stava) una radice della loro libertà. E non si creda che in tal modo gli interessi generali vengano sacrificati, è vero anzi il contrario. Nella Guerra fredda lo Stato pesante e onnipotente che regnava sull’asservita società russa, fu battuto dallo stato leggero che governava la libera e aperta società americana, che fece quella Nazione più forte, più ricca e, alla fine, anche più uguale, dato che le classi son meglio delle caste. Queste riflessioni portano logicamente all’inversione dei concetti di pubblico e privato e cioè al riconoscimento che quando vi è un diritto di carattere generale valido per tutti (come alla mobilità o alla proprietà) quello è un vero diritto pubblico, cioè di tutti e per tutti, mentre al contrario, se si ammette, ad esempio, la discrezionalità di una autorità nel concedere un passaporto o procedere ad un esproprio, quella è al contrario una privativa, perché sottopone all’arbitrio di un’autorità o di un gruppo di autorità, un diritto che prima era generale, cioè veramente pubblico. E questo deve essere vero sempre, anche quando l’imposizione di regole e comportamenti, anziché da leggi statali, venga di fatto introdotta da condizioni determinate da oligopoli, in grado di imporre economicamente degli standard il cui risultato sia sempre la costrizione del singolo. Il liberalismo è un concetto più generale della semplice democrazia, perché pone comunque dei limiti a qualunque potere. E, in questi precisi termini, solo i liberali ideologici sanno e soprattutto vogliono, esprimersi.

Diverse le considerazioni sui pericoli nuovi per la libertà. Oggi la situazione è radicalmente peggiorata per l’imponenza dei mezzi a disposizione dei governi e delle multinazionali globalizzanti che può rendere più pervasivo e totalizzante ogni disegno liberticida. Controlli elettronici, schedature incrociate, telecamere e microspie, polizie centralizzate, armi sofisticate, droni, internet, la società collettivizzata ha trasformato grandi scoperte tecniche in strumenti attraverso i quali la volontà dei tiranni (che possono anche essere macchine automatiche) e dei loro rappresentanti, può effettivamente essere trasmessa dal vertice alla base, fino a regolare rigidamente la vita di ogni singolo cittadino, fino a spiare, giudicare, orientare, soffocare e punire ogni comportamento deviante. I network di massa sono canali attraverso i quali, se sapientemente orientati, può essere più facilmente ottenuto l’ottundimento delle coscienze, la scomparsa del senso critico e l’acquisizione di un consenso totalitario e massificante. Del pari l’enorme aumento della popolazione e l’urbanesimo hanno fatto sì che l’uomo non si trovi più a vivere la sua vita in agglomerati di poche persone, ma al contrario si trovi in costante contatto con un grande numero di persone all’interno delle strutture di massa (città, fabbriche, uffici, trasporti) e che la collettività giochi nei suoi confronti un ruolo molto più decisivo che nel passato, obbligandolo a seguire determinate regole e moduli di comportamento, senza che egli abbia più la possibilità, che conservava fino al recente passato, di usufruire di fatto di un suo spazio privato per vivere e in cui potere, assieme a poche persone, seguire proprie regole.

Come si vede il problema di avere delle libertà riconosciute e difese in modo formale appare assai più drammatico in una società moderna, in cui la tecnica rende il potere molto più effettivo e ciò mette in crisi la riposante convinzione di un generale progresso verso forme di società più civili. L’enorme efficienza dei nuovi ritrovati tecnici e principalmente dei computers collegati in rete, ha poi permesso, a un potere che non ha mai smesso di volersi considerare assoluto (e che tende addirittura ad affidarsi a ciechi algoritmi), di dirigere, condizionare e massificare i cittadini e di soddisfare questa volontà di dominio senza rinunciare alla produttività di un mercato formalmente aperto, portando come risultato ad una ibridazione tra tendenze totalizzanti che definisco, per provare a rispettare il significato delle parole, Capital-Comunismo. Questo specie se la si considera in unione ad un concetto acriticamente fatto proprio dalla più recente sociologia: quello di danno statistico. Ovvero del danno che collettivamente può essere probabilisticamente inflitto ad altri, come concetto che può assumere rilevanza giuridica anche per il singolo.

Cioè tutti veniamo resi colpevoli – e puniti come singoli – degli eventuali danni che “tutti produciamo a tutti” e questo senza che vi sia non solo nessuna assodata dimostrazione, ma almeno una soglia ragionevole di applicazione (senza la quale si può vietare praticamente tutto a tutti) in base a un cosiddetto “principio di precauzione” che nei fatti è solo la rinuncia a provare a conoscere veramente. Tutto deve essere vietato, tranne ciò che dev’essere obbligatorio. Di legge e di fatto. Questa sembra la tendenza in atto in questo primo scorcio di secolo. I diritti personali, i soli – ricordiamolo sempre – davvero di tutti e per tutti, sono sempre più minacciati e questa pare oggi essere la prospettiva di molti Stati, anche in quello che una volta era l’Occidente libero. Naturalmente agli occhi dei liberali classici (che hanno ben poco a che spartire con i “liberal”, spesso solo socialisti tartufi) la tendenza non può che apparire molto pericolosa per le nostre libertà e forse è perfino peggio di quanto già sembri.

Insomma, sulla base del ragionamento svolto, si può affermare che il problema della tirannide assume ai giorni nostri un rilievo ben maggiore che in passato e inoltre non riguarda più solo le dittature conclamate, ma anche tante pseudo-democrazie o “democrature”, che riducono le elezioni a un rito formale utile per mascherare, con una democrazia finta, una perdita di libertà personale vera. Ripetiamolo, ci danno una democrazia collettiva finta e per pochi, al posto di una libertà individuale vera e per tutti. Forse ancora peggio sul piano militare. Le grandi potenze potrebbero trascinare oggi in una distruzione di massa praticamente immediata le loro popolazioni e quelle di tutti i Paesi loro assoggettati e, per questi ultimi, senza che nemmeno i loro governi nazionali ne possano avere reale e tempestiva coscienza, dato che i tempi di reazione di un attacco missilistico nucleare sono di pochi minuti e una eventuale potenza attaccante potrebbe avere la certezza di evitare una pari risposta da parte di un alleato minore del nemico (sul cui territorio non vi sono armi nucleari proprie, ma dell’alleato maggiore sì) solo distruggendolo preventivamente. Trovarsi in guerra e in una guerra nucleare, senza neanche saperlo, è altamente improbabile, ma teoricamente possibile. Le grandi organizzazioni internazionali decidono e dispongono al di sopra di tutti e soprattutto al di sopra di ogni reale principio democratico, mentre le multinazionali (e oggi le più aggressive sono cinesi oltre a quelle americane) il problema non se lo pongono neppure, provano a imporre e basta, imponendo standard cogenti, controllando la catena delle forniture e il mercato delle materie prime. Questa involuzione, in movimento sempre più avvertibile dai primi anni del Novecento, ha trovato una forte accelerazione nelle grandi guerre, con una distruzione di vite, legami, tradizioni, consuetudini, che, con la giustificazione della “necessità” ha reso più facile la spoliazione dell’autonomia delle persone, trasformate in docile carne da cannone (quasi indipendentemente dalla “democraticità” dei regimi) e, a seguire, in cittadini meno indipendenti, come ad esempio con la progressiva de-monetizzazione dell’oro e le limitazioni al suo commercio, che hanno reso difficile sfuggire alle scelte esclusive delle banche centrali, divenute sempre più le sole e uniche padrone dei valori reali di ciò che uno porta in tasca (e oggi si vuole pure abolire il contante per “tracciarci” meglio). Tutte le crisi, vere o presunte, sono state recente causa e alibi di grave perdita di libertà personale, una libertà che solo nell’Ottocento era stata finalmente riconosciuta come un diritto naturale ed inalienabile e non come semplice concessione revocabile. Contro il nuovo Leviatano Hobbesiano globale, sono sorte per fortuna delle resistenze spontanee, che potremmo definire come liberal-nazionali per la loro difesa dei diritti della persona e delle comunità, ma che non si sono ancora rivelate sufficientemente efficaci, perché sporadiche e non collegate tra loro. L’Europa resta per noi la sola e vera possibilità di riprendere nelle nostre mani il nostro destino. L’Europa delle leggende, della musica, dei castelli, dei chiostri, dei codici miniati e del diritto, delle arti e della scienza, degli aratri e delle forge, quell’Europa cristiana e illuminista, dei diritti dell’uomo, che abbiamo costruito mischiandoci e facendoci la guerra. Un’Europa Patria anch’essa, che è l’unico modo per restare cittadini Italiani, Francesi, Tedeschi o della piccola Slovenia. Purché però si applichi un principio liberale di sussidiarietà, che l’Europa cioè non faccia ciò che possono fare le nazioni, queste non sostituiscano i poteri locali e che questi ultimi non ritengano di poter imporre, ai liberi cittadini e alle loro proprietà, regole e comportamenti assurdamente irreggimentati, spesso secondo mode o semplici opinioni personali di sindaci e mini governatori guappi, che, alla lunga, potrebbero innescare forme di disobbedienza civile alla Thoreau. E che le crisi, dalle guerre alle pandemie, non siano pretesto per il ritorno a poteri assoluti, come purtroppo è stato dato di vedere con il Coronavirus.

Contemporaneamente all’eclissi dei valori di libertà si assiste, da tempo, all’indebolimento di ogni ordine sociale basato su valori di competenza, cultura e tradizione, sostituito da una indifferenziata moltitudine anonima da cui non si emerge più per quella che una volta si chiamava “chiara fama”, ma per semplice notorietà, comunque ottenuta. Calciatori, rockstar, presentatrici, vallette, sono diventati i “maître à penser” dell’amplificatore mediatico, con grande seguito, ma senza giustificato prestigio. Il denaro, comunque accumulato e lo scandalismo, comunque praticato, diventano i principali segni di distinzione, mentre una diffusa ribellione contro le competenze e l’industriosità, viste come segno di diseguaglianza, tende a distruggere ogni ordinamento spontaneo e a produrre disgregazione, con il risultato che masse disordinate e fanatizzate ogni tanto si scatenano con furia iconoclasta contro ogni ordine non poliziescamente imposto, in una società di cui non rispettano più i simboli e la storia, arrivando a distruggere statue di Cristoforo Colombo o antichi Budda e portando, come risultato finale, alla sostituzione di una società organica, libera e responsabile, proprietaria dei suoi beni e indipendente, con uno “Stato organico”, accentratore, autoritario e spesso servo di istituzioni globalizzate.

Anche le più belle conquiste della modernità, come la ricerca scientifica e la medicina, che per la prima volta nella storia hanno cominciato ad emancipare davvero l’uomo dalla fame, dalle malattie e dalla schiavitù indifesa verso il Fato, sono ormai sottoposte a censure ideologiche pregiudiziali da scalmanati inconsapevoli, che mitizzano una natura inabitata inesistente e odiano l’opera degli studiosi e dell’homo faber, urlatori che ai vaccini in fondo (e neanche tanto in fondo) preferiscono le segregazioni. Alla fine è sempre la libertà, così come avevamo imparato a conoscerla e a goderla in numero sempre crescente lungo l’arco di un secolo e mezzo, la libertà come diritto e non come concessione, la libertà come reale autogoverno, che rischia davvero di scomparire. La libertà per cui tanti, nei secoli, hanno dato la vita. Speriamo che il senso di se stessi (che chierici opportunisti, aspiranti autocrati e religiosi ottusi, chiamano egoismo), la razionalità e l’ottimismo, tornino ad imporsi, magari grazie ad una grande impresa che ci ridia il senso di avere ancora un futuro, come potrebbe essere forse l’espansione nello Spazio e la sua colonizzazione, per ritrovare il significato di una vita degna di essere vissuta, crescendo nella libertà.

La terza considerazione è la posizione negli schieramenti esistenti e il modo di operare politicamente, perché alla fine, se in quasi tutto il mondo esistono una destra e una sinistra con caratteristiche certo non uguali, ma abbastanza simili, una ragione di fondo deve esserci. C’è un valore che la destra e il centrodestra classici hanno tradizionalmente cercato di preservare ed è la libertà. Storicamente è stato così. Scegliendo una parte, la destra appunto, nelle aule delle nascenti assemblee rappresentative europee, si scelse di leggere la storia in un certo modo, si scelse di essere eredi di certi valori e di certi interessi, si scelsero tradizione, aristocrazia, bellezza, proprietà privata, elitarismo, ma, soprattutto, si scelse la libertà. Anche se per un lunghissimo periodo era stata la libertà di pochi. Era stata la libertà dei filosofi di Atene, la libertà dei patrizi di Roma, la libertà delle corporazioni dell’Italia dei comuni, la libertà dei nobili, dei “pari” del regno d’Inghilterra o dei grandi borghesi, una libertà aristocratica ed elitaria insomma, ma la sola libertà di allora. Oggi ci appare inaccettabile, ma per millenni era stato così, di fatto il “popolo” non comprendeva la plebe, il mondo – più di oggi – era dei signori, dei guerrieri, dei ricchi, la libertà era concepibile per pochi e la ragione era ridotta spesso solo a ragionevolezza.

A sinistra si sedettero invece coloro che adoravano l’uguaglianza. Si sedettero coloro che si volevano gli eredi di Sparta e di Spartaco, si sedettero i socialisti utopistici, si sedettero i giacobini. All’uguaglianza, al livellamento sociale, all’istruzione indirizzata e obbligatoria, erano pronti a sacrificare bellezza, cultura, tradizione, religione, proprietà e financo la vita e la libertà, la quale ultima, se non poteva essere di tutti, non doveva valere per nessuno. Contraddittoriamente partecipi però, della millenaria consuetudine di considerare la plebe incapace di gestirsi, gli uomini della sinistra vollero esserne i dichiarati tutori e alla fine lo teorizzarono: “Un partito a guida della classe proletaria, con un comitato centrale a guida del partito, un Politbüro a guida del comitato e un primo segretario a guida del Politbüro”. Una piramide, in luogo dell’uguaglianza. E alla ragione sostituirono spesso la Dea Ragione. Le due tendenze che cercavano di comprendere la Storia, si fronteggiarono tra nazione e nazione e dentro le nazioni, all’interno di regole condivise (e fu la polemica politica) e al di là delle regole (e fu la guerra). Ma intanto scienza e sviluppo marciavano e, proprio nelle società più libere, cambiavano la vita di tutti. Il vapore, la stampa, l’elettricità, l’accumulo di capitale e la rivoluzione liberale borghese, cominciavano a permettere la diffusione del benessere, dell’istruzione e la settimana di quaranta ore, cominciavano insomma a fare della plebe popolo. L’irrompere delle masse nella vita politica, diventava così – nei Paesi occidentali – l’irrompere di milioni di nuovi cittadini, in grado di cominciare a comprendere le trasformazioni, di partecipare, di ricercare la cultura e l’elevazione sociale. Ed era la destra assai più della sinistra, che pure l’aveva ostentatamente cercata, l’artefice di questa trasformazione sociale, era il successo del metodo della libertà elitaria, su quello dell’uguaglianza coatta, era il successo dei paesi liberal-nazionali su quelli social-comunisti, nonostante questi ultimi l’avessero come programma. Ma di una libertà elitaria che via via evolveva in libertà democratica. Si era infatti finalmente prodotta, nella destra che sempre aveva posto il “signore” al centro del suo sistema di valori e che ne voleva a tutti i costi salvare libertà e stile di vita, la sacrosanta presa di coscienza che il signore esisteva e poteva rivelarsi nella persona qualunque, purché le fosse permesso di elevarsi spiritualmente e materialmente e nacquero i grandi partiti democratici e liberali dell’occidente. La libertà cominciava a diventare di tutti e per tutti. Tra tentativi e tremendi sbagli, rozze semplificazioni, rivoluzioni e controrivoluzioni, tuttavia la contaminazione tra destra liberale e sinistra socialista, trascinate entrambe dal progresso tecnico, si è comunque prodotta ed ha generato effetti complessivamente positivi, pur conducendo ad esiti diversi. L’esigenza di considerare certi valori sociali ha infatti prodotto un rafforzamento delle democrazie liberali occidentali, mentre l’introduzione di elementi di tolleranza liberale nei paesi comunisti, ne ha provocato per incompatibilità il crollo. Se questo ha dimostrato la superiorità del sistema di libertà, ci lascia comunque in parte anche una sinistra migliore del passato (anche se solo nel cosiddetto socialismo liberale) una sinistra che, seppur controvoglia, sembra aver accettato la lezione liberale e che oggi, sempre almeno in parte, non prende più, né obbliga a prendere, il fucile. Comunque si è camminato e oggi la sinistra democratica di un Paese democratico, cerca di contemperare libertà ed uguaglianza anche se privilegia quest’ultima, mentre la destra democratica sa bene che la libertà è certo il primo valore, ma può valere per tutti se c’è giustizia sociale. L’Europa intera, alla caduta del muro di Berlino, sembrava, come il resto dell’Occidente, vicina alla democrazia compiuta perché si era finalmente capito che la libertà porta sempre con sé anche un certo grado di uguaglianza e giustizia sociale, le quali invece, anche se invocate, scompaiono del tutto dove la libertà muore, che la libertà dunque viene prima dell’uguaglianza, che le destre, la Destra liberale, avevano ragione. Sembrava tutto fatto, sembrava che il modello liberal-democratico e l’economia libera dovessero finire per affermarsi in tutto il mondo, sembrava l’inizio di quella “fine della Storia”, che Fukuyama, nel suo fortunatissimo libro, preconizzava.

Non era purtroppo così e per varie, molteplici e profonde ragioni. Il vento dell’integralismo aveva infatti ripreso a soffiare nelle vele di alcune religioni, soprattutto islamiche, recuperando la storica intolleranza delle verità rivelate assolute e facendo del credo religioso uno strumento di aggressione nazionalistica antioccidentale, mentre certa sinistra, in nome di un relativismo autolesionistico, ha spesso dato una copertura al fenomeno, sembrando dimenticare completamente che i valori di tolleranza dell’illuminismo laico non sono “un punto di vista occidentale”, ma le vere regole fondanti della democrazia.

Contemporaneamente, quella gran parte di mondo ancora governata dai comunisti, segnatamente la Cina, abbandonata la sistematica inefficienza dell’economia di Stato pianificata di modello sovietico, permetteva la nascita di un’aggressiva intrapresa privata, ma senza rinunciare in nulla alla dittatura ed alla assoluta prevalenza del partito, divenendo così molto più pericolosa nella sfida, anche militare, alle democrazie, perché alla enorme popolazione poteva finalmente aggiungere una ritrovata efficienza economica, grazie alle economie di scala e ai bassi salari di una pace sociale violentemente imposta. L’Occidente intanto, cominciava a mostrare segni di debolezza e divisione (non inganni la momentanea e molto forzata unanimità antirussa), dovuti in parte al fenomeno nuovo, essenzialmente americano ma diffusosi ovunque, di un “politically correct” molto intollerante, basato su un ambientalismo ideologico e tendenzialmente antieconomico, su un furore iconoclasta verso gran parte della sua storia e delle sue tradizioni e su una ideologia “gender” radicalizzata, fenomeni uniti, per una parte non residuale, ad una perdurante tendenza dei Paesi anglosassoni di lingua inglese, a considerarsi sempre e comunque “guida naturale” del mondo libero, con conseguente significativa sottovalutazione, nelle decisioni veramente importanti, del ruolo degli alleati, a cominciare dall’Europa. E questo è dovuto assai più alla sinistra radicale e messianica, che ai conservatori libertarian, con Ronald Reagan non sarebbe successo, come probabilmente non sarebbero mai avvenuti i disastri dell’Ucraina e dell’Afghanistan. In generale la sinistra, in tutto il mondo sviluppato, non sa più governare gli avvenimenti, perché, al di là di una pericolosa omologazione mediatica, mondialista e totalizzante, è divisa in due grandi filoni entrambi irrimediabilmente inadeguati : l’uno, ortodosso, affida ancora le soluzioni al classico statalismo tardo ottocentesco, datato, fallito in tutto il mondo e ormai perfino sfiduciato in se stesso, l’altro, il filone rosso-verde, è segnato da una prevenzione oscurantista verso la scienza e da una sorta di pessimismo globale verso l’uomo e le sue qualità, quando non addirittura da un certo disprezzo mal dissimulato per l’umanità, vista come spregevolmente egoista. In definitiva la sinistra non ama l’uomo, lo vorrebbe più rispettoso, più altruista, più ecologico, più disinteressato e magari più sportivo, vegetariano o dedito alla cucina mediterranea, ma insomma così com’è non le piace proprio, ecco perché la sinistra ha sempre quell’atteggiamento pedante verso tutti e concepisce come metodi solo il divieto e la regola, mai la libertà. Tutto questo ha una conseguenza drammatica, la sinistra più invecchiata pensa ad una inesistente realtà di uomini stabilmente irregimentabili, quella più recente ama in effetti la natura solo se priva di presenza umana (che è quanto di più innaturale esista, perché in natura l’uomo invece c’è). Con queste premesse, la sinistra può soltanto ostacolare la soluzione dei problemi. Oggi, nel mondo e nella nostra Italia, solo la destra democratica, liberale e nazionale, occidentale e modernizzatrice, sembra avere le categorie di valori per provare ad affrontare i nuovi problemi: ottimismo, senso del dovere, visione dell’uomo nella natura, senso e memoria della storia, fede e gusto della Libertà e anche e soprattutto quella fiducia nel progresso umano che sembra ormai persa dagli altri ma che lei rivendica con orgoglio (come quando progetta la colonizzazione dello Spazio). Ma per far questo occorre che le mille anime della destra e del centrodestra, le mille tradizioni e storie diverse a cui questa grande comunità è appassionatamente attaccata, vengano unite in una nuova storia da costruire, vengano proiettate verso il futuro e fuse dall’azione.

Occorre che tutte le differenze delle destre, che ne costituiscono il ricchissimo humus di idee, culture, sentimenti e perfino risentimenti, entrino in un crogiuolo per produrre una sintesi per gli anni duemila, senza che nessun sacerdote della propria etnia politica consideri riduttivamente gli altri, senza abiure e senza riserve di caccia. Da De Gaulle e Reagan in poi, le alleanze di centrodestra sono la prima reale opportunità di modificare radicalmente la politica di un Occidente nel quale il socialcomunismo statalista (in versione ortodossa, politically correct o clericocomunista, a seconda delle culture) si era radicato in più di cinquant’anni, sono la prima reale opportunità di restituire le nazioni occidentali ai loro cittadini e alla loro tradizione. Valori che per più di trent’anni erano stati dimenticati o sembravano sul punto di esserlo, come la libertà individuale, il senso dell’onore, la libera iniziativa, la tradizione Cristiana, la solidarietà nazionale, la Patria (e l’Europa avrà successo proprio se saprà essere Patria anch’essa), sembra che abbiano di nuovo diritto di cittadinanza politica e non più come isolate testimonianze di piccole comunità fortemente motivate, ma come valori condivisi da grandi movimenti popolari che puntano democraticamente alla direzione delle nostre Nazioni. Queste Alleanze hanno irrevocabilmente indicato la Libertà come fine e la democrazia come metodo, in tutti i campi, a cominciare dall’economia, dove il convinto liberalismo economico è a difesa del cittadino, contro ogni massificazione, socialista od oligopolistica, che lo riduca ad un indifferenziato compagno-consumatore. Noi difendiamo la Persona. Oggi, finalmente, sembriamo in grado di vincere la “battaglia delle idee e delle parole”, imponendo come discrimine le scelte che quelle idee sottendono, invece di subire divisioni imposte dalle parole del social-comunismo e questo perché un centro-destra, diviso da un secolo drammatico in spezzoni legati a passati diversi, è apparso finalmente in grado di riunirsi nel nome di una visione tradizionale e di un impegno per il futuro. Ricordiamocelo quando le polemiche partigiane rischiano di dividerci. È un’enorme responsabilità quella che incombe sulla destra, ma una responsabilità cui non può sottrarsi, perché la battaglia coi nemici della Libertà, con gli integralisti, con gli eredi di Sparta, non è finita. E il nostro posto è – e non può non essere altro – che a destra tra le forze della Libertà, su quella linea politica che fu di Reagan (il più grande del Novecento) e in quella corrente di pensiero che fu di Friedman, Popper, Von Hayek e Von Mises, ma soprattutto riprendendo una gloriosa tradizione Italiana, quella della Destra Storica che, mantenendo in ordine il bilancio, scolarizzò il Paese, estese ovunque le ferrovie, creò la nostra prima industria pesante e, soprattutto, unificò la Nazione nella Libertà. Gli echi di quella Destra esistevano ancora quando Einaudi, Don Sturzo, Pella, Malagodi, Maranini esercitarono la loro azione contro una sinistra sempre vittima dello stesso, tragico, errore di fondo: il negare valore all’individuo, alla persona. L’uomo ridotto a formica e il formicaio come unico soggetto autonomo, questa purtroppo si riduce sempre ad essere la sinistra. E allora, per noi, solo a destra i liberali possono guardare, ma ricordando sempre di essere liberali. Per noi, che in ogni singolo uomo vediamo l’intera umanità, è questo un limite invalicabile, contro ogni statolatria che cerchi di insinuarsi anche a destra, facendo del giustizialismo e della ragion di Stato delle motivazioni di comodo. Se il dove è chiaro, resta da vedere il come. Noi abbiamo sempre cercato incontri, alleanze, interlocuzioni, con tutte le forze del centrodestra italiano e continueremo, tenacemente, a farlo, ben consci che il suffragio universale ha delle regole ineludibili, ma non ad ogni costo. Se non potremo fare altro, saremo disposti anche a fare da soli, perché, almeno, resti se non altro testimonianza di quella linea di pensiero, difficile e sottile, ma che da Cavour in poi, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna dell’Italia.

Aggiornato il 02 febbraio 2023 alle ore 10:00