L’eutanasia propria è un diritto assoluto: il documento della Cei non convince

Prendendo in esame le ultime vicende umane, giudiziarie, parlamentari, riguardanti il suicidio assistito, fino alla sentenza alquanto pilatesca della Corte costituzionale, la Conferenza episcopale italiana ha prodotto un ampio documento per ribadire la dottrina cattolica sull’eutanasia, una parola che comprende fatti e concetti disparati. Il documento è di tono inutilmente apocalittico, purtroppo condito di espressioni poco evangeliche verso i dissenzienti e persino di un anatema contro deputati e senatori.

Qui vorrei esaminare l’eutanasia in senso proprio, etimologico, cioè la mia propria buona morte. Ho il diritto di farla finita? Sì, certamente. Il suicidio, in verità, non è né un diritto né una libertà, ma un evento generato dalla pratica facoltà di poterne attuare la decisione. Se sono legato ad un letto di contenzione o sotto un controllo capace d’impedirmelo, io non perdo il diritto o la libertà di suicidarmi, non subisco un divieto; semplicemente sono vincolato dalle circostanze. Nell’istigazione al suicidio puniamo l’istigatore, non il suicida. La legge si disinteressa del suicida se il suicidio è stato senza effetti su altri, a meno che abbia causato danni risarcibili. Dunque, l’eutanasia ed il suicidio hanno in comune l’infliggersi la morte, che è sempre “buona” ovvero “preferibile” per il suicida; se no, non la sceglierebbe.

Il problema dell’eutanasia nasce quando il potenziale suicida non può realizzare l’intento perché le condizioni personali glielo impediscono. È il caso dell’interessato che rivolse al presidente della Repubblica un appello affinché il Parlamento approvasse una legge che gli consentisse di morire in pace. Anche contro questa eutanasia, che costituisce oltre ogni dubbio un diritto umano inalienabile, sono insorte la religione e la cosiddetta bioetica adducendo però motivi che hanno più a che fare con la superstizione che con la ragione.

David Hume, il gigante che svegliò Kant nientemeno dal sonno dogmatico, ha pronunciato a riguardo le parole definitive nel celebre saggio “Sul suicidio” (Saggi, Vol. III, Laterza, 1987, pag. 585), “esaminando gli argomenti correnti contro il suicidio (ergo, eutanasia) e mostrando che quest’azione può essere scagionata da ogni imputazione o accusa, conformemente all’opinione di tutti gli antichi filosofi”. Tra l’altro, egli si domandava: “Che cosa significa l’opinione che un uomo, il quale, stanco della vita e perseguitato dai dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente i terrori naturali della morte ed esca da questa scena crudele; che un tale uomo, dico, incorra nell’indignazione del creatore per aver violato l’opera della provvidenza e turbato l’ordine dell’universo?”. Ed aggiungeva: “Non può ciascuno disporre dunque liberamente della propria vita? E non può legittimamente usare la facoltà di cui la natura lo ha dotato?”. Ecco la sua conclusione inattaccabile, allora, adesso, sempre: “Se disporre della vita umana fosse una prerogativa inoppugnabile dell’onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il dominio peculiare dell’onnipotente, prolungando la mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era assegnato”. Poiché, come a ragione sostiene Hume, noi abbiamo ricevuto dall’onnipotente e dalla provvidenza sia di poter godere il bene che di fuggire il male, non possiamo lagnarci senza esercitare la facoltà di porre fine a “una vita odiosa, piena di pene e infermità, vergogne e miserie”.

Ma, poi, i bioetici sanno rispondere a quest’altra domanda, cioè: a chi nuoccio togliendomi la vita? Chi pretende l’eutanasia per suicidarsi non fa male a nessuno e fa bene a se stesso: cosa c’è di più etico di una simile condotta? A tacere che nella maggioranza dei casi “la rinunzia alla vita può essere non solo innocente ma lodevole.” Infine, il comandamento mosaico “non uccidere” non riguarda noi ma gli altri “sui quali non abbiamo autorità”. Io trovo davvero esecrabile un ordinamento giuridico nel quale una persona debba invocare l’intervento dello Stato per porre definitivamente fine alla sua insopportabile esistenza.

Aggiornato il 07 ottobre 2020 alle ore 10:12