C’è luce su Israele. Luce di speranza, per una vita di pace. Luce di fede, che illumina la via del ritorno a quel pugno di ostaggi ancora vivi dopo due lunghi anni di atroce sofferenza. E concede ai morti per mano del vile assassino palestinese il diritto di riposare per l’eternità in Sion, la terra dei loro padri. C’è luce di giustizia, che estirpa il cancro terrorista di Hamas da quel budello della storia chiamato Gaza. Luce di forza, che costringe i palestinesi, dopo la dura lezione subita per mano degli israeliani, a fare ammenda del catastrofico errore commesso nell’affidare alle belve di Hamas il proprio futuro. C’è luce di saggezza, perché l’Occidente progressista e liberal reciti un corale mea culpa per aver ceduto alle sue debolezze crocifiggendo e insultando i suoi salvatori e osannando i nemici annidati all’interno del suo stesso corpo. Donald Trump è il vincitore. Il suo piano di pace è stato accettato dalle parti in conflitto e la tregua d’armi ci sarà.
Giornate storiche queste, che non dimenticheremo. Se mai un giorno si dovesse effettivamente superare positivamente la prima fase dell’accordo e, attuando tutti i punti previsti dal piano di pace, raggiungere la definitiva stabilità dell’area mediorientale bisognerà ringraziare quel bizzarro, enigmatico, urticante, a tratti rocambolesco inquilino della Casa Bianca. Forse un domani accadrà, ma non è questo il giorno. Il sole non è allo zenit e le tenebre non si sono del tutto dileguate. La possibilità che l’entusiasmo di queste ore possa tradursi in un disperante abbaglio e si possa scivolare irrimediabilmente nella notte della ragione è lì, dietro l’angolo. Già, perché non basta silenziare la canna di un fucile per riconoscere il fratello nel nemico messo nel mirino non da ieri ma da un secolo. Ciò che i palestinesi di Gaza, guidati da Hamas, hanno fatto al popolo israeliano il 7 ottobre 2023 ha aperto una ferita difficile a cicatrizzarsi. Impossibile a guarire nell’immediato. Perché un giorno vi sia vera pace in quello spicchio infinitesimo di mondo occorre che mutino le coscienze, si evolvano le menti, maturi la tolleranza nell’accettare il diritto dell’uno e dell’altro a coesistere pacificamente, fianco a fianco.
Un giorno forse vi sarà uno Stato di Palestina, ma non è oggi quel giorno. Non basta una terra su cui dichiarare una sovranità. Occorre un popolo in grado di formare una classe dirigente onesta, che non sia un covo di corruzione e di abuso. In tanti, dalle nostre parti, si sono chiesti il perché, al tavolo delle trattative di pace, non vi fosse l’Autorità nazionale palestinese. Ribaltiamo la domanda: perché dovrebbe? La Anp è la causa prima del disastro che il mondo ha vissuto in questi due ultimi anni. Se i palestinesi di Gaza si sono affidati ciecamente ad Hamas è perché hanno conosciuto e ripudiato il potere corrotto dell’Anp. Lo comprenda l’Occidente, se non vuole che la storia del fanatismo integralista islamico si ripeta. L’ultima cosa di cui ha bisogno quella martoriata terra è che ci si affretti a nascondere la verità sotto il tappeto dell’ipocrisia; che si faccia con i palestinesi ciò che fu fatto con i tedeschi e con gli italiani all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale: coprire la realtà con il manto misericordioso della menzogna detta a fin di bene, condannare i pochi per assolvere i molti.
Per anni – e ancora oggi accade – si è raccontata la favola che gli orrori perpetrati in Europa fino al 1945, l’Olocausto del popolo ebreo, la morte della libertà, fossero opera dei nazisti e dei fascisti e che tedeschi e italiani fossero vittime dei regimi che li tiranneggiavano. Nessuno ebbe il coraggio di dire la verità, e cioè che sull’antisemitismo non c’erano innocenti. Neanche nelle nazioni europee che poi vinsero la guerra. A naso, la sensazione è che l’operazione “separazione” delle responsabilità sia già in atto a Gaza. Non è solo la sinistra occidentale ad averla entusiasticamente sposata, anche le destre sono inciampate nella tentazione ipocrita di passare una mano di pittura coprente sulla verità storica. Se non si indurrà il popolo palestinese di Gaza ad ammettere le proprie responsabilità nell’aver sostenuto convintamente la politica stragista di Hamas si lascerà che tizzoni di fuoco continuino ad ardere sotto la cenere di un accordo di pace fittizio. Non si tratta di una nostra ubbia sottolineare la robustezza dell’equazione palestinesi-Hamas. Lo dicono i più accaniti sostenitori della causa palestinese. Bisogna ascoltarli, se non si vuole fra qualche tempo ritrovarsi nudi e disarmati di fronte al disvelamento di una realtà ostinatamente negata.
Non c’è in questo momento persona al mondo che generi in noi ribrezzo e sdegno quanto la signora Francesca Albanese, di recente innalzata agli altari dalla sinistra progressista, ciononostante l’ascoltiamo e la prendiamo sul serio quando spiega che Hamas non è quell’alieno che ha preso possesso della società civile palestinese come, in zoologia, di un corpo ospite che il parassita utilizza per svolgere il suo ciclo vitale ma che tra i due insiemi vi sia più di un’osmosi dettata dall’interesse, vi sia una connessione ideale. Donald Trump potrà anche riuscire a imporre quel punto 6 del piano che prevede l’allontanamento degli uomini di Hamas dalla Striscia e la totale estromissione dell’organizzazione dalla futura governance di Gaza (punto 13). Ma, attenzione! Se tutto l’ambaradan di questi giorni dovesse servire a rimettere in sella nell’attuale configurazione un potere corrotto, guidato da un “re travicello” – quali sono l’Autorità nazionale palestinese e il suo attuale leader Maḥmūd ʿAbbās – Hamas tornerà, perché saranno i palestinesi a invocarne il ritorno. E sarà accolto trionfalmente perché sarà pronto a restituire a quel popolo l’unico possibile orizzonte politico, morale e spirituale nel quale unitariamente riconoscersi: la distruzione dello Stato d’Israele.
D’altro canto, l’arma terrorista finora ha trovato una giustificazione nel codice identitario di Hamas: l’organizzazione opera per recuperare “i legittimi diritti usurpati dei palestinesi”. Il rischio grande è che l’Anp cambi pelle ma non perda il vizio, che si predisponga a trasformarsi in una moderna satrapia tenuta in piedi dai denari delle dinastie arabe sunnite del Golfo e dalla scriteriata generosità delle istituzioni occidentali. Ragione per la quale non è immaginabile alcun percorso negoziale che sfoci nel riconoscimento di uno Stato palestinese sovrano a immutate condizioni etiche, giuridiche e politiche. Vi sarebbe, tuttavia, una strada mediana da esplorare che può appagare la volontà dei palestinesi ad avere una propria terra e, nel contempo, offrire sicurezza a Israele. Si potrebbe rispolverare un progetto che fu esaminato, agli inizi degli anni Ottanta, da Yasser Arafat e dal re di Giordania Ḥusayn bin Ṭalāl: costituire una federazione tra il regno hashemita e l’entità palestinese. All’epoca, la proposta ebbe vita breve perché il re di Giordania, diffidando di Arafat, lo accusò esplicitamente di “privilegiare l’unanimismo nella sua organizzazione anziché la ricerca di risultati concreti per il suo popolo”.
Oggi il contesto storico è radicalmente mutato. E il fattore decisivo del cambiamento di senario è costituito dalla posizione egemonica che gli Stati Uniti hanno conquistato sui Paesi ricchi dell’area, in particolare su quelli che tradizionalmente hanno finanziato e supportato gli atti terroristici contro Israele. Il riferimento è al Qatar, ma è tutta la potenza di fuoco finanziaria che i Paesi arabi possono dispiegare nella fase di ricostruzione di Gaza e, successivamente, della Cisgiordania che può rivelarsi l’arma vincente per portare la Giordania ad accettare di assumere un ruolo proattivo nella tutela e nella vigilanza di una costituenda entità statuale palestinese. Israele, stabilmente integrata nel circuito economico-produttivo della regione attraverso l’implementazione degli Accordi di Abramo, estesi alla nuova Siria e alla Turchia, potrebbe acconsentire a che i palestinesi si facciano la loro piccola patria a sovranità limitata. É ciò che realisticamente si può sperare accada evitando di lanciarsi in rischiosi voli pindarici. Ma fermiamoci a godere l’uovo odierno piuttosto che a rammaricarci per la gallina che non avremo domani. E oggi, per i nostri amici israeliani, è HaTikvah (la speranza). La speranza che non muore; la speranza di essere un popolo libero nella loro terra, la terra di Sion e di Gerusalemme. Metteteci le note musicali, perché questo è il testo dell’inno nazionale israeliano. Mazal tov!
Aggiornato il 11 ottobre 2025 alle ore 09:47
