
Ha fatto bene Marcello De Vito a tornare a presiedere l’Aula Giulio Cesare del Consiglio comunale di Roma senza far passare neppure due giorni dalla fine degli otto mesi di carcere e arresti domiciliari. “Dove eravamo rimasti?”, ha chiesto ai consiglieri imitando il famoso professore dell’“heri dicebamus” rientrato in cattedra dopo vent’anni di esilio provocato dal regime fascista. E dopo aver incassato un convinto applauso dalla maggioranza dei consiglieri è tornato a presiedere l’aula consiliare come se il tempo si fosse fermato all’anno scorso.
De Vito ha fatto valere la presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione, quella secondo cui nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza di condanna definitiva. E l’essersi fatto forte di questo sacrosanto principio che distingue lo stato di diritto da quelli dove prima della legge c’è l’etica di chi si trova al potere, va ascritto a suo merito ed a maggior gloria della Carta costituzionale.
Detto ciò va anche rilevato come siano risultati incomprensibili gli applausi che gli hanno rivolto i consiglieri del Movimento Cinque Stelle. Sono stati un segno di solidarietà amicale o politica? Hanno voluto significare che i grillini romani si sono convertiti alla presunzione d’innocenza, da sempre considerata dal Movimento una norma desueta da garantisti pelosi? Oppure che quando si tratta di amici il loro minaccioso avvertimento ai nemici “onestà, onestà” significa solo “trullallà, trullallà”?
Aggiornato il 22 novembre 2019 alle ore 10:17