
Che Matteo Salvini stia fra le cubiste della costiera adriatica – in fondo anche il Duce passava i bei dì estivi in quel di Riccione – non deve trarci in inganno o, peggio, spingerci a considerazioni etico-moralistiche che, tra l’altro, lasciano il tempo che trovano.
La “Repubblica del Papeete”, naturalmente, si porta dietro le inevitabili considerazioni a proposito della politica di oggi, nel senso della sua rappresentazione salviniana presso lo stabilimento balneare di Milano Marittima, fra leghisti da spiaggia con tanto di microfono annunciante gli speech del leader con il ballo estivo e i suoi tatuati con il mojito da passarsi l’un l’altro. Spettacoli e balli che, comunque, non sono così nuovi giacché su quelle felici spiagge si va da sempre, anche se la cosiddetta famiglia d’antan è stata sostituita dall’individualismo giovanile in cerca di sballo.
In questo senso, il capo supremo della Lega ha capito meglio degli altri l’aria che tira non soltanto vestendosi e rivestendosi della giacca ad uso e consumo dei media oltre che dei presenti, in questo caso i ragazzi da spiaggia desiderosi di selfie, ma anche e soprattutto sapendo di coniugare il suo procedere nella giungla devastata della Polis di adesso con un senso non del ritmo brasiliano ma di quello tutto nostro con una musica che suona per lui suonata da lui stesso.
Non per parlare male di Silvio Berlusconi – adesso è fin troppo facile – ma le considerazioni a suo tempo (anche nostre) a proposito di bandane e circondario, come si dice, di belle ragazze non certo invitate a riflettere su Platone e Aristotele, possono essere traferite a questi giorni, sia pure aggiornate in un salvinismo di ballo (tanto) e di governo (poco).
Il fatto è che proprio questi exploit dentro un quadro mosso e cangiante rivelano di certo la primazia, la presenza pressoché unica, da solitario, di un capo che ha il cosiddetto vento in poppa e lo sfrutta anche ad usum delphini e funzionale ai successi elettorali prossimi venturi, ma al tempo stesso ne rivela una doppia assenza: quella di una struttura politica, di una ideologia, di una sostanza, e il vuoto di un’opposizione degna di questo nome che pare presa in contropiede (più di un anno dopo) dal salvinismo del quale sono troppo facili se non inutili le moralisticheggianti critiche al “Papeete” di oggi, ben sapendo che tali osservazioni, comprese quelle relative al suo figliolo sulla moto d’acqua della polizia, per non dire di quelle a proposito delle “tangenti” russe, sono finite nel grande mondo della non memoria cui lo sballo quotidiano del poco o nulla che resta della politica italiana aggiunge ulteriori pennellate. E Salvini lo sa e ci dà dentro.
Insomma, la vittoria di Matteo Salvini (per ora, intendiamoci) è dovuta allo scavo quotidiano nel grande buco dell’indifferenza cui lo stesso Matteo lavora ogni giorno, ma nella consapevole certezza da parte sua che non si vedono all’orizzonte le vele di un’opposizione capace di rivelarne ragioni e alternative sia per la non credibilità degli oppositori sia, anche e soprattutto, perché tutti hanno contribuito a questo stato di cose che, non dimentichiamolo, è gradito agli italiani che, infatti, hanno votato in massa una Lega passata dal nordismo bossiano al nazionalismo salviniano, ostile all’Europa persino quando una Ursula von der Leyen nella sua visita italiana è stata snobbata, lasciando perdere anche le sue offerte interessanti al Presidente del Consiglio a proposito dei migranti.
Peraltro, e non a caso – a parte le sorprese di un voto in un Senato che da tempi lontani non è dotato di una maggioranza di ferro – l’attenzione estrema da scontro dedicata appunto a questo decreto chiamato Sicurezza bis che non contiene affatto novità vere e proprie giacché ad un’attenta lettura ne rivela una quasi copia carbone del primo dello scorso governo, per cui sorge il sospetto che sia lo stesso Salvini ad avvolgerlo di urgenza, di necessità e di verifica di una maggioranza nella quale si avvertono venticelli ostili di un alleato nato e cresciuto sull’assistenzialismo, il giustizialismo, le ingiurie agli altri, il populismo ma, soprattutto, il dilettantismo, cioè il vuoto di esperienze, di capacità e di professionalità tanto più indispensabili quanto più si accede agli scranni governativi, cioè al potere.
In questo senso, cioè il potere, i grillini non sembrano propensi al suo abbandono a cominciare da un Luigi Di Maio del quale da qualche parte si sentono elogi per la sua moderazione dipingendolo, grazie anche al suo diluvio quotidiano di selfie, Facebook, Instagram ecc., come uno statista capace e moderno. E gli stop and go fra lui e un Salvini che minaccia, sempre con le modalità di cui sopra e con i primi piani televisivi, la imminente fine di questa maggioranza, fanno parte delle danze care alle spiagge di Milano Marittima, un passo avanti, uno indietro, uno a sinistra e l’altro a destra, e un brindisi insieme con l’immortale mojito.
E avanti col ballo. Fino allo sballo.
Aggiornato il 07 agosto 2019 alle ore 11:20