Politica: chi ha vinto le Olimpiadi?

Si dice e si scrive che a proposito delle Olimpiadi invernali del 2026 c’è un vero vincente: l’Italia, giacché i politici di vario orientamento e di pari determinazione hanno spinto assieme. E chi ha perso? Facile: il “Partito del No” o della rassegnazione, in particolare la sindaca Chiara Appendino, ovvero il Movimento 5 Stelle che, si badi bene, dopo aver detto sì con annessi e connessi vari com’è nell’indole pentastellata, mobilitando per di più un sacco di uomini, donne, sportive e sportivi dell’arco alpino, si è pentita, ha detto di no, ha ritirato Torino e il Piemonte intero. Complimenti, si vorrebbe dire. E alla prossima. Che non mancherà.

Ma non è il solo caso che brilla fra le Cinque Stelle del “No” se è vero come è vero che il campione massimo della negazione, il capintesta del “No” è stato l’ottimo Luigi Di Maio che, dal canto suo si era formalmente impegnato a negare un solo euro all’Olimpiade da lui detestata e respinta non solo e non tanto per l’idea (millenaria, peraltro) in sé, ma per l’impegno che comporta, professionale e imprenditoriale, che accresce lavoro, ricchezza del Paese, crescita, preferendo a tutto ciò la distribuzione di risorse a ceti parassitari e improduttivi.

Del resto, la vittoria di Milano (e Cortina) sottolinea ed esalta, se ce ne fosse bisogno, il ruolo della città nello sviluppo nazionale ed europeo e, al tempo stesso, mette in risalto il gioco a tutto campo di un Nord che sa confrontarsi e battersi e vincere con un altro Nord (vedi Stoccolma) non solo e non tanto per la sua forza in sé, quanto e soprattutto perché ha funzionato il gioco di squadra e le alleanze, da Malagò a Fontana fino a Zaia e Sala, facendo vincere un’Italia giovane, al femminile, che parla inglese, trasversale e che guarda ben oltre i campanili facendo sistema.

Come in ogni partita, di qualsiasi genere, c’è chi vince e c’è chi perde. E non v’è alcun dubbio che, a proposito dei perdenti, l’iscrizione fra i primi riguarda i pentastellati simbolizzati dall’esclusione di quella Torino guidata da un sindaco che anche in queste ore, insieme al suo movimento, mentre rivendica il ruolo di rappresentante del popolo, non riesce a riconoscere di aver sbagliato in mancanza di una seria riflessione anche e soprattutto in una città che governa proprio con i rappresentanti di quella Lega e di Salvini, i sicuri vincitori del match. Ci sarà il tempo e non mancheranno le occasioni per un recupero. A volerlo, come si dice.

Il tricolore sventola e sventolerà e qualcuno non può non scorgere in questo garrire, cambiamenti, virate di bordo, giravolte e marce completamente diverse dal prima di una Lega che proprio alla bandiera a tre colori destinava, Salvini in primis, improperi e maledizioni politiche invocando un trionfo nordico che, si badi bene, c’è stato e c’è ma tanto in quanto simbolo e sottoscrizione di un patto innanzitutto nazionale, subito dopo, europeo, dando bensì un segnale opposto al bossismo d’antan, ma anche e soprattutto un’indicazione contro un andazzo della politica politicante in un periodo caratterizzato da colpi al basso ventre, di odi e di divisioni, anche interne agli stessi partiti, caratterizzando la vita pubblica in un senso esattamente opposto, e per fortuna. E se durerà, ovviamente.

Vincitori e vinti, come si diceva. Matteo Salvini, che in queste cose sa come muoversi, non è apparso più di tanto nella vicenda Olimpiadi, fermandosi in tempo nella sua voluptas vivendi televisiva che, ad ogni buon conto, non è mancata e non mancherà mai di occasioni sposando l’attivismo di un ministro degli Interni che, intanto, ha fatto letteralmente sparire quello che dovrebbe occuparsi di trasporti (anche marittimi) ma che, tuttavia, sembra esaurire proprio nell’apparire ora per ora (in concorrenza con il collega Di Maio) la ragione, la sostanza, l’essenza politica delle altre cose da fare, le cosiddette riforme delle quali sono pieni gli annunci, traboccano le promesse, lampeggiano gli spot nel solco dei trionfi di quella civiltà dell’immagine il cui più vero rischio è quello di interrompersi nella seconda metà, di fare trionfare ciò che si vede e si sente e non ciò che si fa e si farà.

La grande Mina lanciò negli anni Sessanta l’indimenticabile motivo di “Parole, parole, parole, soltanto parole, parole fra noi…”. Ma Mina Mazzini non era al governo, non faceva il ministro, cantava splendidamente. E non sarà casuale che qualcuno, forse, cominci a consolarsi dall’eterno e italianissimo: canta che ti passa.

Aggiornato il 27 giugno 2019 alle ore 10:49