Populismi e giustizialismi: il caso Formigoni

Ora, noi non siamo di quelli che chiedono al ministro Alfonso Bonafede se sia giustizialista o populista o tutte le due cose insieme, ci mancherebbe altro. Né gli poniamo domande su quella riforma della giustizia, ben sapendo che basta il suo nome, nei governi passati e recenti, non soltanto per non farla, la riforma, ma per parlarne.

Del resto, sappiamo bene - e cominciano a saperlo non pochi italiani - che il movimento pentastellato aveva bensì esposto programmi oppositori, a destra e a manca ma poi, al governo, è passato ai progetti relativi ma, a dirla tutta, non se ne sono viste realizzazioni degne di questo nome.

Lo stesso Matteo Salvini, che pure è “oggettivamente e storicamente” il migliore di gran lunga nelle faccende politico-governative, non pare, almeno fino ad ora, un esecutore e propositore per dir così ispirato alla concretezza, cioè ai fatti, alle realizzazioni, quanto, piuttosto, un abile gestore di uno spazio del quale, peraltro, è stato in grado di favorire un ingrandimento a spese del collega Luigi Di Maio, non a caso volato negli States dove certamente troverà più ampi spazi nello sport in cui è praticamente imbattibile: lo sport, a proposito del quale l’immortale Mina cantava: parole, parole, parole...

È il nuovo che avanza. Certo, una legge cara al ministro degli Interni, sulla legittima difesa, è stata approvata dal Parlamento e Salvini né è giustamente soddisfatto tanto da esclamare: “È un gran giorno per gli italiani. La legge non sarà il Far West ma lo Stato starà al fianco dei cittadini per bene!”. Ma qualcuno potrebbe chiosare che lo Stato con le sue strutture centrali e ramificate non può non essere al fianco dei cittadini.

E altre due proposte del governo, il decretone sul reddito e quota cento sono diventate leggi, approvate da Camera e Senato, il che non può non essere salutato e valutato positivamente, sullo sfondo di una politica, o del poco che ne resta, in cui l’opposizione sembra per dir così assopita e con un Partito Democratico (senza Matteo Renzi?) che, come ha bene evidenziato il nostro direttore, è tuttora impegnato nel valutare le conseguenze e le prospettive, soprattutto elettoral-europee, del suo spostamento a sinistra.

Intanto la Confindustria ha lanciato un allarme parlando sic et simpliciter di crescita zero riducendo le stime sul Pil sullo sfondo di immancabili aumenti di tasse per l’enormità del debito pubblico, mentre Renato Brunetta, criticando il ministro Giovanni Tria per le costosissime misure del reddito di cittadinanza e della quota cento, ha parlato di un “fallimento globale che gli italiani saranno costretti a pagare di tasca propria”.

Non da ora questo giornale, insieme a pochi, pochissimi altri, ha messo in guardia dal combinato disposto di populismi e giustizialismi che stanno alla base di successi elettorali, soprattutto di quel M5S che premendo sui social e sui media ha puntato soprattutto sul giustizialismo come condanna anticipata, sull’uso spregiudicato della giustizia sommaria, per richieste di condanne altrettanto sommarie per chi sia ritenuto colpevole di misfatti, ma senza prove vere. E con il contorno di un coro mediatico, molto più erede degli anni di Tangentopoli che ispirato al garantismo. Erga omnes.

Intendiamoci, il caso Roberto Formigoni con relativa condanna a cinque anni di carcere che sta scontando a Bollate, non può definirsi esemplare in quanto a mancanza di garanzie nel processo. Un processo regolare con una condanna - per corruzione nell’inchiesta sulla sanità lombarda nel 2012 - in tutti e tre i gradi di giudizio con relativo sequestro dei beni. Il problema, semmai, riguarda l’età dell’ex Presidente della Regione Lombardia che ha superato i 70 anni mentre la legge cosiddetta “spazzacorrotti” vieta qualsiasi beneficio carcerario ai condannati per tangenti, come sostengono i giudici del caso, negandogli gli arresti domiciliari. Di parere contrario i difensori di Formigoni, che sostengono la tesi, né banale né effimera, che tale legge non può essere retroattiva.

Formigoni ha preso sportivamente, come si dice, questi cinque anni sulle spalle, da passare in quel di Bollate che viene definito dai giudici un “carcere a cinque stelle” con tanto di laboratori e senza aggiunte di condizioni umilianti. Ma sempre prigione è.

Aggiornato il 29 marzo 2019 alle ore 13:07