
Alessandro Magno, per realizzare la profezia che prometteva la dominazione dell’Asia a chi lo sciogliesse, tagliò di netto il nodo inestricabile sul carro conservato nella città di Gordio. Impugnò la spada. Non stette lì ad armeggiare inutilmente per districarlo. Ecco, Roma è un nodo gordiano.
Il ritratto dell’Urbe (quali imbecilli hanno voluto che al nome augusto di Roma fosse aggiunto “Capitale”?), dipinto dalle inchieste giudiziarie, dalle investigazioni giornalistiche, dalle confessioni degli amministratori, dalle voci popolari, mostra che l’intera città costituisce una suburra e che, forse, il più malfamato quartiere risulta meno sporco del Campidoglio e dei suoi annessi e connessi.
Il sindaco Ignazio Marino aveva iniziato alquanto bene. Direttamente o indirettamente aveva portato una certa aria non inquinata. Diceva di voler fare pulizia. Era ed è giusto farla, la pulizia. Ma qui soccorre il mito. Augìa era un re che possedeva immense stalle. Il che vuol dire immani quantità di letame. A ripulirle, Augìa chiamò Ercole nientemeno, che, pur essendo il forzuto che sappiamo, dovette deviare le acque di due fiumi per compiere questa sua sesta fatica. Lasciamo perdere che Augìa non pagò la mercede pattuita sicché Ercole lo uccise. Resta il fatto che il sindaco Marino non ha ben calcolato i metri cubi di stallatico sparso nella Città Eterna, dall’eternità per il vero, e ha fatto conto di disporre della potenza erculea indispensabile allo scopo. Il chirurgo prestato alla politica ha pensato che il bisturi gli potesse bastare. Povero tapino! Lì, sui colli fatali, occorre una spada e, soprattutto, un Alessandro a brandirla.
La questione romana, quella di oggi, è meno una questione comunale di efficienza amministrativa e di buona gestione che di legalità generale e di cultura civica. La responsabilità pubblica e privata è un’opzione quasi mai esercitata. Tanto il gigantesco apparato municipale, quanto il corpaccione della cittadinanza girano usualmente la faccia dall’altra parte o, meglio, dalla parte giusta. I romani degni del nome, pochi stando ai fatti, invocano l’ordine generato dal rispetto della legge mentre i tanti moderni barbari fanno quello che vogliono a dispetto dei diritti altrui e degli obblighi propri.
A Roma, e in tutta l’Italia, dove più dove meno, pare che il rispetto della legge riguardi solo la mafia e i delitti “mediatizzati”. Invece servirebbe una duratura, inflessibile, generalizzata repressione di tutte le più piccole illegalità se davvero si volessero scongiurare le grandi. Ma non ne esiste la volontà politica perché manca la cultura che genera tale volontà. Roma, unica al mondo ad inglobare al centro addirittura uno Stato estero, si è ridotta al punto da esigere una “dittatura romana” che la salvi dai prepotenti e dagli indolenti e dimostri con i fatti che chi sbaglia paga, in alto e in basso; che chi non lavora non deve mangiare, come affermano San Paolo e la Costituzione sovietica; che chi poco dà, poco riceverà; che i contribuenti del Campidoglio ne sono i padroni, non i servi; che, dunque, ogni impiegato comunale deve pulir loro le scarpe e servirli anziché trattarli da suoi schiavi; che i denari dei tributi devono essere spesi con parsimonia e per scopi utili, non dissipati e impiegati per soddisfare vanità e compiere porcherie.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:31