
Che un Premier scottato dal magro bottino elettorale se la prenda con uno dei fattori di questo deludente prodotto, il buon Ignazio Marino, non è una novità. E non lo è neppure il fatto che quella sorta di licenziamento sia avvenuto a “Porta a Porta”, confermatasi ineluttabilmente non più come terza Camera, ma seconda, posto che il Senato non c’è più. Del resto, la narrazione storica di Bruno Vespa fluisce nel tempo come il fiume delle “cose e persone” che la tivù registra, a parte, beninteso, i buoni libri dell’autore che ne approfondiscono le immagini catodiche. Del resto, dove avrebbe dovuto accomodarsi il Premier per confessarsi se non in televisione, che è il principio e la fine della sua essenza comunicativa?
Eppure, bastava seguire con attenzione lo storytelling dell’altra sera per coglierne una sensazione di disagio, di freno e l’aleggiare di alcuni vuoti colpevoli rivelanti assenza di sostanza, alla luce dei risultati. La stessa fuga in avanti nei confronti del sindaco Marino denotava una sorta di cover up sui contenuti veri, cioè giudiziari, cui Marino non c’entra, ma che il Presidente del Consiglio ha finito col farne il capro espiatorio pur essendo il primo cittadino della Capitale un eletto dal popolo e Renzi invece no. Ma tant’è. Il renzismo comunicativo ha assoluto bisogno di questi target su cui puntare dopo un insuccesso: Casson imposto alla sua volontà, la Paita distrutta dal fuoco amico, Marino immobile allo specchio che ne rimanda l’immagine dell’unfit ecc.
Si intuiva e si intuisce, ovviamente, che dietro questi pretesti, pur validi, c’è un gruppo di nodi irrisolti, di problemi cui Renzi non vuole o non può guardare in faccia. E invece deve, prima che i medesimi “groppi” lo blocchino e lo avviluppino. Noi non sappiamo come finirà l’affaire giudiziario romano, se continueranno le puntate o no, e se il toponimo di “Mafia Capitale” s’imponga sino al requiem di questa giunta, che è naturaliter immersa nel contesto. Fatto sta che già quel marchio abbinante la peste mafiosa con la capitale italiana è destinato a rimanere inciso a caratteri di fuoco nonostante la sua reale portata ché, al massimo, l’epifenomeno “mafioso” romano appare più appeso a un ramo secondario se non infimo di una “piccola criminalità favorita” piuttosto che al cupo tronco di Cosa Nostra.
Ma il problema di fondo nel renzismo sta a latere, se non in cima. Se lasciamo il caso Roma (finirà, prima o poi, come ha insinuato il Premier), la tecnica comunicativa improntata alla corsa, alla scommessa, al traguardo sempre nuovo sullo sfondo della rottamazione, continuerà per la contraddizione che non consente: se si ferma la corsa, addio Renzi. Semmai è finita la rottamazione sostituita dall’occupazione, legittima, per carità, degli enti per gli amici, ma non si vedono all’orizzonte dello one-man-show - che, pure, non sembra perdere punti significativi nei sondaggi - una strutturata volontà e capacità di affrontare almeno due dei nodi fondamentali che rischiano appunto, di avvilupparlo: la giustizia, ovvero il garantismo, e l’immigrazione. Dal cui intreccio, anche casuale, sono derivate non poche delle difficoltà renziane. Nella giustizia non pare che si siano fatti passi avanti, anzi. C’è un’oscillazione fra inefficienza del comparto, coincidente con quella dello Stato, il supporto “mediatico”, da magic touch, di un personaggio alla Cantone e un susseguirsi di grida manzoniane per pene severe, severissime, implacabili.
Manca fino ad ora a Renzi un elemento essenziale e fondamentale, un alito vitale: il garantismo, quello autentico, erga omnes, non soltanto quello per la Paita o De Luca e per riaffermare l’autorità e l’autonomia della politica condizionata fin dalle liste elettorali da un qualsiasi pm e seguenti - vedi l’emblematico caso Errani - quanto quello da cui derivarne e impostarne la giustizia giusta, senza sospetti di inchieste “politiche”, con processi veloci, fra parità di accusa e di difesa. Che è come dire: una giustizia efficiente in uno Stato efficiente. La storia di questi vent’anni post-Tangentopoli insegna che l’indurimento delle pene produce esattamente l’opposto. Serve la prevenzione. Ma dov’è? Giustizia e immigrazione, due palle al piede di Renzi, pericolose, pesanti. Peraltro, la prevenzione è mancata nella drammatica vicenda dell’ondata migratoria, cui la comunicazione renziana, oltre che dell’Europa che si riconosce solo nella moneta unica, è stata assente. Et pour cause, data la complessità. Troppo comodo. Perché non spiegare le differenze fra profughi e immigrati? E proporne soluzioni a breve, medio e lungo termine? Dove è finita la Mogherini? E, soprattutto, perché dimenticarsi della Libia dopo la immonda, colpevole ma non solitaria devastazione sarkoziniana? Come non accorgersi che la piaga libica sarebbe suppurata ed esportata? Da mesi sui gommoni rigurgitanti di disperati, domani su invasioni dei tagliagole nerovestiti? Un grave difetto di comunicazione e di assunzione di responsabilità e dunque di necessaria prevenzione, anche in loco o a Pianosa o vattelapesca, è dunque accaduto al Premier, lasciando sindaci e governatori a sbattersi in un campo minato dove le urla salviniane, adiuvate dai mass media martellanti, continuano a denunciare invasioni di massa e clandestini sotto il letto, sollecitando paure e angosce, scambiando la scabbia con la peste, e l’effetto di una fuga disperata con la causa a monte, ma sempre con picchi di audience e di voti. È facile prendere i voti della protesta e della paura. Ancora più facile quando manca la proposta e la decisione del Governo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18