Immigrati, Renzi dimentica la Libia

E vabbé che c’erano (state) e ci sono inchieste a bizzeffe - “Mafia Capitale” resterà la griffe esclusiva - e che, vedi Venezia, il clima non era poi così di rinnovamento nel Pd renziano, ma il vero richiamo di questi giorni-mesi elettorali è stata la nouvelle vague (in onore dei cugini d’Oltralpe) dell’immigrazione selvaggia. E della sua auto-esternazione tramite media, con un martellamento che meriterebbe un’analisi a parte. Praticamente tutti i talk-show e tutti i telegiornali hanno rimarcato lo tsunami immigratorio non sempre indicandovi la distinzione fra profughi, immigrati e clandestini in un melange televisivo che ha costituito il nutrimento dello spettatore.

Un piatto unico, si direbbe, una pietanza forte, un pasto selvaggio. Non v’è alcun dubbio che questa informazione abbia influito sul voto, ancorché comunale, ancorché locale. Se poi nel mix si aggiungono le spezie macabre del machete contro un capostazione e la testa di donna mozzata da un transessuale, viene da dire: il pranzo è servito. La dipendenza dello spettatore dalle immagini offerte del mondo che lo circonda e che lo assedia è assolutamente confortata non tanto o soltanto dallo sguardo più o meno attento giornalistico quanto, soprattutto, dal risultato elettorale. Non semplifichiamo, per carità. Né invochiamo l’equazione di causa ed effetto. Ma l’inondazione dello spazio visivo quotidiano da sequenze incalzanti di nuovi arrivi è un dato incontrovertibile nell’esame dei comportamenti sociopolitici, elezioni comprese.

Si vorrebbe qui aggiungere che ha ragione un lucido, ma astuto Del Debbio, a darsi ragione sui motivi primordiali delle sue trasmissioni che, non a caso, hanno sistematicamente battuto le contigue analogie televisive improntate a impostazioni più intellettualistiche, per dire. Ma la ragione vera, la più limpida delle reason why, è il fondamento di quelle scene, la base portante di quel racconto: la realtà. Ed è infatti la realtà che ha fatto irruzione dentro le nostre case, è la verità nuda e cruda delle persone sugli scogli di Ventimiglia e di quelle centinaia di abbandonati nelle hall eleganti della stazione centrale milanese, questo è il vero che ci è venuto addosso. La realtà, la verità, il vero. E la paura. Si capisce che la tivù pigia i tasti su simili motivi. E si capisce pure che il Salvini che è in noi scatta e insorge, e chiama a raccolta. Ma, con o senza Salvini, è la paura della realtà che ha fatto aggio su tutto, anche là dove non si votava, come nella Milano dell’Expo scintillante “sporcata” di colpo nel suo biglietto da visita da un evento inimmaginabile. Inimmaginabile? Questo è il punto. Non è così. Era bene immaginabile l’incidente della stazione centrale. Come lo era il naufragio a terra, davanti alla Costa Azzurra ed a Montecarlo, di altre centinaia di fuggitivi. Come lo è e lo sarà qualsiasi altra sopravvenienza del genere, posto che una mezza dozzina di Paesi, dalla Siria alla Libia, sono invasi e occupati dalla macelleria dell’Isis, e chi non vuole finire appeso ad un gancio o con la testa sul busto, fugge e fuggirà verso la vita. Non era e non è un problema sconosciuto.

Anzi, qualche intelligente e avveduto mass media ha da mesi spiegato come non si tratti più di emergenza e che, semmai, dall’emergenza si è passati alla normalità di una fuga di massa che durerà nel tempo. Una trasmigrazione epocale. Estote parati, dicevano biblicamente quelle narrazioni. Donde l’aumento della paura ma, al tempo stesso, delle domande che vanno poste alla politica, a chi governa, a chi regge la cosa pubblica. E la domanda è semplice e impietosa: che avete fatto, eravate pronti, come vi siete preparati? Come risolvete questa fuga di massa “epocale”? Le risposte sono davanti a noi, e non sono, a dir poco, tranquillizzanti, al di là dei rimedi di corsa e dei tamponi alle falle. Perché la domanda di fondo richiama, e non poteva non essere che così, la figura e il ruolo del Premier Matteo Renzi (e non per infierire sulla sua sconfitta elettorale), che ha mostrato un’impreparazione di fondo in politica estera, esattamente a proposito di quell’Europa sempre citata e che, nelle elezioni a lei dedicate, lo aveva premiato generosamente.

L’Europa, benché stupita dal suo successo, si è tuttavia accorta ben presto che il “premiato” non riusciva a giocare quella carta vincente, non mostrava cioè quella stessa energia che coniugava nella politica delle riforme, dal Nazareno al Jobs act. Il gap fra l’Europa sognata e sognante e il vecchio e ricco Continente storicamente inchiavardato sull’asse Germania-Francia, si è allargato mano a mano che il renzismo in politica europea rifluiva, a mani vuote, e non era in grado di impostare nuove alleanze, di imbastire nuovi corsi. Il ché, per un rottamatore, non è un bel risultato. La sua dimenticanza più grave è stata la Libia. La Quarta Sponda, il punto più delicato, il Paese più devastato, un non-Paese che ci sta di fronte, a due passi. Dalle Guerre Puniche, si direbbe. Eppure, bastava che leggesse qualcosa dei suoi predecessori, quel Giolitti, che pure s’era meritato “Tripoli, bel suo d’amore” e i Mattei, i Moro, gli Andreotti, i D’Alema, i Prodi. E i Craxi, specialmente. E lo stesso Berlusconi, amico di Gheddafi poi travolto dalle megalomanie di Sarkozy. Non è mai troppo tardi.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09