
La verità è che dopo ogni tornata elettorale si ritorna al punto di partenza. Anzi, un po’ indietro. Per tutti, si capisce. Sia per chi vince, a cominciare da Renzi e Salvini, sia per chi ha perso, vedi il centrodestra, soprattutto il centro. Perché il centro? Perché la sensazione è di un’evanescenza di questo spazio, non a caso centrale e dunque indispensabile per vincere, cioè per governare.
Riavvolgiamo la pellicola dalle elezioni prima politiche e poi europee, senza soffermarci di nuovo su scissioni, lacerazioni, strappi del Nazareno, cambiamenti di casacca vertiginosi in un Parlamento fra i più sputtanati della storia italica. Il punto vero, quello che doveva rendere consapevoli i perdenti delle due elezioni, consisteva nella presa di coscienza non solo della sconfitta ma dell’inarrestabile inutilità del voto a loro stessi, soppiantati da altri soggetti - Renzi e Salvini appunto - non perché dotati di poteri sovrumani ma, più semplicemente e banalmente, perché offrivano risposte, giuste o sbagliate che fossero, ai problemi insorgenti. Avevano, e hanno, una visione del Paese la cui proposta si articola(va) in soluzioni su cui, come sempre, è il popolo sovrano che giudica e giudicherà. È la democrazia, in un Paese complesso e agitato da una crisi economico-politica e il cui sistema, la sua statualità centrale e decentrata, è rimasta la medesima di cinquant’anni fa. Semmai, con un peggioramento. L’altro punto è che sia Renzi che Salvini (a parte Grillo che gioca da solo, ma forse cambierà strada), proprio perché capaci di dare risposte alle domande di sempre, dal Governo e dall’opposizione, hanno mostrato crudelmente l’insufficienza paurosa degli altri, aggravata dalle diverse difficoltà di un Berlusconi la cui presenza, sia nelle dinamiche politiche del Paese che nel suo partito, è oggettivamente indebolita con risultati negativi elettorali e (soprattutto) progettuali, ideali, futuribili, coinvolgenti, seducenti.
E siamo al nodo vero, al nucleo duro della questione. Nella recente elezione regionale abbiamo detto e scritto più volte che la domanda del cittadino normale era (ed è, purtroppo): perché dovrei recarmi alle urne? E perché dovrei votare quel partito? Le due domande sono concause, ma indicano un deficit pauroso, un gap quasi incolmabile fra la volontà di votare e la possibilità di una scelta nella misura con la quale il tuo partito non riesce più a mostrare un progetto, a offrire un’idea di Paese, a porsi come soggetto deciso e decisivo nella dinamica politica, finendo col cedere elettori a chi ha più forza di convincimento, più determinazione nell’offerta, più comprensibilità nell’esporre ragioni e soluzioni. La comprensibilità, dunque. Di cui Renzi è indubbiamente dotato, ma il suo “successo” alle elezioni regionali è fortemente inficiato da quei milioni che si sono rifiutati di andare alle urne e di votarlo. Ma non perché mancasse la proposta, ma per il rifiuto della stessa. Ciò è avvenuto in quelle fasce del Partito democratico che non accettano il Premier tout court, e di cui la Camusso, presa a schiaffoni politici da Renzi, gliene ha restituito uno, ventiquattro ore prima del 31 maggio, invitando la Cgil a votare scheda bianca. Fatto!
Peraltro, il Renzi che voleva sfondare a destra sostituendo quei vecchi consensi con quelli nuovi recuperabili nel bacino di Forza Italia e Nuovo centrodestra, ha mancato clamorosamente l’obiettivo. Ed è ora esposto alle divisioni interne ringalluzzite, con cui dovrà comunque fare i conti e, se ne avrà il coraggio, recidendo legami con i tanti che sono sempre sulla soglia dell’uscio se non, addirittura, col fucile caricato a pallettoni e puntato dalla postazione istituzionale dell’Antimafia, per ora. È quello amico il fuoco più micidiale. Di Salvini s’è detto tutto. Compresa la stupefacente presenza sui mass media che, come si dice, aiuta. Ma non si vince soltanto in virtù di dose massicce di talk-show. Il loro aiuto di visibilità sarebbe vano in assenza di una proposta chiara, di un progetto definito, di un programma specifico. Salvini ce li ha, eccome: populismo e demagogia, stop ai barconi (magari bombardandoli), stop all’Euro, no all’Europa, stop ai Rom, via Schengen, ritrattare Dublino, protezionismo, frontiere protette, antigarantismo giustizialista. Con questo armamentario il numero uno della Lega si è confermato certamente un vero leader ma, altrettanto certamente, non può essere un leader di centro, cioè il luogo, lo spazio, l’area che si ispira alla grande tradizione liberale, garantista, popolare, riformista, europea. E di governo.
Ebbene, l’Opa che Salvini ha infine posto su FI e Ncd, e sotto sotto su Fdi, addolcendola col contentino ligure a Toti, è un’Opa al veleno, per di più mortale; è una sorta di requiem sul centrodestra, perché il centro non c’è più né può essere considerato centro politico un luogo che vede insieme protagonisti che la pensano in modo diametralmente opposto. Intendiamoci, quello spazio non è sparito per un coup de theatre del mago Silvan, ma per gli errori degli uomini. Ai quali basterebbe una rilettura del programma di Forza Italia di venti e più anni fa, non dico per ripartire - che sarebbe troppo bello, quasi un sogno di mezza estate - ma almeno capire dove e quando hanno sbagliato. Sarebbe già qualcosa, un “meglio tardi che mai”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12