Salvini, sempre troppo e mai abbastanza

Si usa il “sempre troppo mai abbastanza”, nei confronti di opere letterarie e/o cinematografiche nelle quali prevalga la quantità rispetto alla qualità, come se l’autore privilegiasse la gonfia retorica piuttosto che la concentrata moderazione. Tradotto in politica, si dice del leader che preferisce il versante demagogico a quello propositivo, il lato sloganistico piuttosto che il coté progettuale. E ciò valga anche per Matteo Salvini che è comunque la new entry nel non vasto territorio delle leadership al cui interno è stato capace, fino ad ora, di rappresentare un’alternativa radicale all’altro Matteo, Renzi, insidiando contestualmente gli spazi altrui specialmente quello di Forza Italia e quant’altri, in un primo bilancio fra costi e benefici politici, sui quali s’è soffermato attentamente il nostro direttore.

L’aggiunta riguarda la cosiddetta resa televisiva di un Salvini che, come ognuno può facilmente notare, è spesso a zonzo per l’etere, da mattina a sera fino a notte inoltrata; e già in una simile dimensione s’annidano i rischi, prima ancora che politici, mediatici. Anzi, questi ultimi ripropongono a loro volta quelli politici, proprio perché la scelta del leader della Lega privilegia la televisione in dosi massicce utilizzando il medium in funzione sostitutiva delle antiche pratiche del ruspante leghismo bossiano con le liturgie del “Dio Po”, dell’ampolla sul Monviso, della Padania libera e via secessionando. L’identità, dunque. E la secessione, questa sconosciuta. Questa è stata allontanata bruscamente dai riti salviniani come appartenente ad un’epoca arcaica, antidiluviana per dire, ma pur sempre costitutiva di una forte identità, smagrita se non smarrita negli anni della debacle leghista. La ricerca di una nuova forma identitaria è la vera sfida salviniana. Un’identità da guadagnarsi tramite i talk-show al posto dei pratoni di Pontida e delle lunghe serate a Ponte di Legno o nelle pizzerie dei paesoni lombardi. Donde l’arrembaggio televisivo di un Salvini il cui più immediato bisogno è la definizione di sé stessi rispetto all’avversario, l’emersione identitaria ex novo contrapposta al leader Renzi (per non dire di Fi e Silvio Berlusconi) al quale, ovviamente, non dispiace affatto una simile contrapposizione. Perché? Per il semplice motivo che la radicalizzazione impressa da Salvini può sollevare di qualche punto i sondaggi ma non riuscirà mai a sfondare il muro maggioritario per l’insuperabile contraddizione fra la demagogia e la proposta, fra lo spot contundente e la progettualità possibile.

Le democrazie moderne si misurano sui successi dei governi e questi si ottengono con una conversione al centro, a meno che chi governa si lasci trascinare nel gorgo del default nel qual caso soccorre l’esempio greco. Che non è di destra, ma di sinistra, sia pure sui generis. Nella Lega i paragoni sono inevitabili. C’è stato un prima e c’è un dopo. La memoria corre alla leadership di Umberto Bossi la cui personalità, fino ai suoi malori, non era in discussione soprattutto all’interno del litigioso e variegato pianeta verde, tanto da piegare le anime più contrapposte ai suoi disegni spesso scaturiti dalla mitiche cene arcoriane funzionali ad un’alleanza di governo durata quasi un decennio nazionalmente, e regionalmente perdurante. Le recenti divaricazioni interne alla Lega, fra Flavio Tosi e Luca Zaia, fra Roberto Maroni e Matteo Salvini, e fra tutti e quattro, indicano impietosamente i limiti della leadership salviniana negli “interna corporis” del movimento, peraltro carente di una classe dirigente all’altezza delle sfide. Se le cose stanno così all’interno, figuriamoci all’esterno, con le necessarie alleanze.

Questa delle alleanze è il vero tallone d’Achille salviniano, i suoi show da Barbara D’Urso piuttosto che da Massimo Giletti o da Maurizio Mannoni tendono ad un rilancio sistematico per una posta da vincere in solitaria e ne svelano, al tempo stesso, il lato da colpire. Che è appunto l’assenza di alleati, ad eccezione di Giorgia Meloni, con un marcatissimo sovrappiù, un troppo di temi estremi, lepenisti, antieuropei, antitutto, tanto gratificanti per l’ego del “one man show”, quanto insidiosi se non dannosi per qualsiasi ipotesi alternativa possibile, cioè di Governo. La scelta è sempre fra un’alternativa abbastanza fattuale e una deriva troppo irrealistica. Sempre troppo e mai abbastanza, insomma.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16