
A proposito del pericolo Isis in Libia, di chiaro, fino ad ora, rimane l’assist di Silvio Berlusconi a Matteo Renzi. Il resto è un rumore di fondo con la narrazione delle contraddizioni interne al nostro Governo sulla situazione libica, sommamente drammatica e urgente. Polifonia, cacofonia, stop and go, smentite. Soprattutto impreparazione. Questa è la vera colpa della nostra politica: che non ha potuto, non ha voluto guardare le faccende davanti a casa nostra. Nemmeno quelle trasmesse dalla tv giorno dopo giorno, per non dire di quelle narrate a iosa e con grande partecipazione dai migliori inviati, valga per tutti l’ottimo Domenico Quirico de “La Stampa”. Ora, le sviste sullo “Scatolone di sabbia” di giolittiana memoria, possono capitare ai cittadini, ai lettori lontani, al popolino. Ma non ai politici.
I politici hanno il dovere della responsabilità che coincide col quello della prevenzione. La pace si preserva se si impedisce una guerra e, comunque, si opera per evitarla nei suoi labirintici risvolti civili intertribali, altrimenti la situazione sfugge di mano e restano soltanto le risorse dei missili e dei bombardieri se non dei corpi di spedizione. Ci si deve cioè chiedere che cosa hanno visto e fatto i responsabili della “Communitas” italiana, coloro che reggono le sorti del Paese, nel dopo Gheddafi della Libia lasciata in macerie fumanti e sanguinolente dopo la feroce Strafexpedition ispirata da Barack Obama, attuata da Nicolas Sarkozy con l’apporto svogliato del nostro Governo di allora, mentre la sveglia Angela Merkel fischiettava la canzoncina: “andate avanti voi, che a me viene da ridere”.
No, non si tratta di retrospettivi “j’accuse” perché il disastro era ormai consumato insieme al latte libico, ovvero il petrolio, versato. Ma il dopo, quello sì. Quello che accadde fin da subito e ha continuato a capitare sotto i nostri occhi allibiti, ecco, quel disastro continuo doveva pur essere tenuto sotto attenta osservazione predisponendone le alternative diversamente dai colpevoli dilettantismi del 2011. E siccome, a detta di molti, la migliore intelligence in Libia è quella italiana, non stentiamo a credere che abbia informato degli eventi post Gheddafi i responsabili di Farnesina e dintorni. Aggiungendovi, come si diceva, i servizi che la tv (da “Rai News” a “TGcom24”, a “Sky”, a “La7”) ha messo spesso in onda segnalando puntualmente gli intoppi, le divaricazioni, il ritorno al tribalismo e l’impossibilità di un riassetto statuale in un ex Paese ridotto a ben due parlamenti e a un numero imprecisato di poteri clanici sull’arco del golfo della Sirte con checkpoint distribuiti anche in funzione delle risorse energetiche presenti in loco. E il petrolio? E il gas? E i fondi libici di milioni di dollari che ne detengono le quote? E, infine, l’arrivo dell’Isis.
Tutto questo film dell’assurdo è srotolato in Italia nel corso di quattro anni, di quattro governi, di due Parlamenti, di quattro ministri degli Esteri, di quattro ministri dell’Industria, degli Interni, delle Riforme, ecc. Non per cercare capri espiatori che non serve a nulla se non ad aizzarci l’un contro l’altro per fare un piacere ai demagoghi inconcludenti, grillini o leghisti. Ma per ragionare sull’ambigua questione di oggi: guerra sì o guerra no, come il nostro direttore Arturo Diaconale ha già puntualizzato ripetutamente. Questione ambigua ma anche fuorviante e pure tardiva non fosse altro perché la guerra c’è stata dichiarata dall’Isis e il nostro diritto alla difesa è sacrosanto al punto da essere “giustificato” dalla Chiesa, di Papa Francesco e di quelli di prima e senza risalire alle Crociate che, tra l’altro, erano il frutto di un ben preciso contesto storico con luci e ombre, soprattutto luci e giustificazioni storiche, ma questo è un altro discorso.
Insomma, la guerra come diritto e dovere di difesa è una necessità, un obbligo. Ma lo è allorquando l’insensibilità, la pigrizia, la disattenzione, la distrazione, il dilettantismo dei governi nell’osservazione di faccende come quelle libiche, contribuiscono a produrre quell’obbligo, quella necessità, come senso unico da percorrere. La guerra, comunque la si chiami, è in casi come questo, un atto dovuto soprattutto nella logica dei nostri interessi vitali che devono prescindere dalle frequenti inconcludenze dell’Onu, ancorché la minaccia Isis che oggi ci spaventa perché brandita nel cortile di casa nostra, si allarga in modo truce in Africa, Europa, Pakistan, Filippine, e dunque la campana suona per tutto il mondo “civile”.
Ma come ci si sta arrivando a questa “chiamata”? Come ci siamo preparati? Come andremo sulla “quarta sponda, tu sarai nostra al rombo del cannon”?. La cosa migliore fino ad ora è stata la mano offerta dal Cavaliere al Premier che ne è apparso oltremodo grato, e ne ha ben donde nel coacervo delle voci interne. Gesto simbolico e, al tempo stesso, politico, forse senza esagerarne gli aspetti. Che sono comunque il segno di un percorso di dignità e responsabilità nazionale adeguato al momento delicatissimo. La chiamano “union sacrée Oltralpe”. Limitiamoci, più modestamente e misticamente, a constatare che il corpo del “Nazareno” è morto, ma che il suo spirito sopravvive. O no?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14