
Con tutto il rispetto parlando, beninteso: la vittoria renziana è anche quella dei “comunistelli di sacrestia”, almeno così si chiamavano una volta. Non solo cattocomunisti, che pure era la sigla preferita per questi esemplari diffusi nella Democrazia Cristiana, ma adepti di quella setta speciale adorante Dio Dossetti che dentro la Balena Bianca ha sempre avuto un ruolo decisivo negli snodi storici, basti ricordare la nascita del nuovo soggetto politico negli anni novanta prodotto da una scissione Dc voluta dal “sinistro” Mino Martinazzoli ponendo le basi del futuro Ulivo a sua volta finito nel Partito Democratico dopo i passaggi e le contaminazioni margheritiane.
Se andassimo un po’ più a fondo della questione, scopriremmo altre radici “religiose” di questi personaggi di cui Sergio Mattarella è oggi il simbolo più alto sul Colle, notando, “en passant”, che anche lui, come del resto tanti altri Dc in politica nella prima repubblica, provenivano dalla scuola elitaria San Leone Magno dei gesuiti siciliani, ramo della chiesa che si commenta da sé per storia e per autorevolezza formativa di classi dirigenti, sol che si pensi che Leoluca Orlando, amico storico di Mattarella, è ritornato sulla poltrona di primo cittadino di Palermo quasi vent’anni dopo averla occupata in quella lontana primavera palermitana che capovolse la politica locale rovesciandone come un calzino le tradizionali alleanze. E un Orlando (per non dire di Mattarella) che riesce a imporsi tanti anni dopo sta a significare la presenza di una tradizione con forti radicamenti negli ambienti che contano, il lievito per una rappresentanza politica in grado di rendere appetibile il pane elettorale: chapeau! Si fa presto, dunque, a dire comunistelli di sacrestia. Certo è che la loro vittoria per il Quirinale ha per lo meno evidenziato una metafora calcistica riferita a Matteo Renzi, inteso come capitano della squadra, regista e capocannoniere. Giocatori e spettatori l’hanno seguito nelle sue azioni e, quando ha avuto la palla a centro campo scendendo a falcate verso gli avversari, tutti si aspettavano un passaggio a sinistra o un’apertura a destra. Adesso passa all’ala, pensavano, e lui si porta oltre la metà campo. Invece è andato avanti, sempre più avanti, confondendo gli avversari e scartandoli con facilità, poi ha visto un varco che portava dritto alla porta e, bang, ha tirato un colpo secco da fuoriclasse:goal!
Fuori di metafora, resta il fatto che gli “avversari-alleati” di Renzi, la coppia Berlusconi-Alfano è stata infilzata sia per errori di difesa strategica sia per mancanza di tattica (piano b). Eppure una strategia c’era ed era il Patto del Nazareno che non era e non è, e forse non sarà, un taxi su cui salire e scendere a piacimento, bensì una linea politica che, almeno fino a due giorni prima di Mattarella, costituiva il perno obbligato per una sorta di diarchia su cui si reggeva l’architettura istituzionale italiana. Berlusconi e Renzi, volenti o nolenti i “malpancisti” nei rispettivi schieramenti, erano i “Castore e Polluce” che stavano riscrivendo le regole fondative della nuova Repubblica, la Terza, non due scribacchini messi lì a tenere un diario. Ma se le cose stanno così, non si capisce per quale banale motivo il Nazareno non abbia retto per l’elezione del Quirinale, fermo restando che entrambi i contraenti del patto avevano ogni diritto per fare ogni mossa, ma all’interno di uno schema comune che prevedeva fra i nomi quirinabili anche quello di Mattarella, oltre che di Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini, Anna Finocchiaro e Pier Carlo Padoan.
Stranamente, è sempre mancato un candidato di uno dei due pattisti, cioè di Berlusconi: né Antonio Martino, né Marcello Pera, né Giuliano Urbani, né Franco Frattini, insomma, nessun personaggio, nemmeno di bandiera, nemmeno da mostrare come patrimonio culturale comune. Si è preferito giocare di rimessa, magari indicando candidati dello stesso Pd, persino quando il suo “Segretario-Premier” aveva ottenuto l’unanimità per Mattarella. Un “nonsense”, che potrebbe valere nel teatrino della politica, ma non nella politica che è finalmente tornata, e che è una cosa seria. Il Cavaliere, che non era presente a Montecitorio per il “niet” dei giudici, e un’assenza del genere conta molto, e non avendo né un piano a né un piano b, ha ordinato scheda bianca in un impulso d’ira, ma non contro Matteo, ma contro il suo gruppo dirigente, tutto, fittiano e non, che l’ha condotto in un “cul-de-sac” quando, invece, si poteva dire di sì a Mattarella, come si fa quando, in una coppia, si deve mandar giù un rospo “pro bono pacis”.
Quanto ad Alfano, la sua sorprendente incapacità di gestire questo snodo la si è avverata fin da subito, fin da quando, cioè, il Pd di Renzi aveva espresso Mattarella come candidato unico. Se c’era uno che non poteva non dico votare, ma neppure pensare di votare scheda bianca per un qualsiasi presidente, figuriamoci poi Mattarella, propostogli dal suo Premier, e col quale in qualità di ministro degli interni avrebbe avuto a che fare quotidianamente, questo era proprio Alfano. Se n’è accorto in zona Cesarini, con uno svoltone che ha rischiato di capottarlo. Di certo qualche ematoma politico lo vediamo. E lo vedremo. Intanto, c’era una volta una diarchia...
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09