Quando i video fanno perdere la guerra

Dopo la decapitazione di Foley, la troupe omicida del Califfato ripropone lo stesso set: deserto abbagliante, boia nerovestito col coltello in mano, la vittima in arancione a supplicare Barack Obama. E poi la decapitazione. Il video va in giro per il mondo. Intanto, però, gli elicotteri americani (che non si vedono) sferrano duri colpi al megalomane assassino al-Baghdadi, riconquistano territori, strade, città e dighe finite in mano al Califfo, nei mesi scorsi, nell’indifferenza iniziale di Obama e dell’Occidente.

Un passo indietro, Dieci anni prima, il mondo scioccato dal crollo delle Twin Towers assisteva sbigottito agli sviluppi della vicenda irachena con la cattura del tiranno Saddam Hussein. Il video ne mostrava il volto emaciato, la barba lunga, gli occhi smarriti. Si compiva, per l’ennesima volta nella storia dell’uomo, il rito della degradazione, enfatizzato, mondializzato, ora, dalla potenza della televisione - e di Internet - che diffondono tutto e dappertutto all’istante.

La guerra di Bush si poté dire vinta soltanto con la diffusione di quelle riprese del “ragno nella buca”, precedute dalla caduta della sua statua - la caduta degli idoli - e anticipatrice dell’impiccagione. E venne subito la reazione dei seguaci di Osama Bin Laden. Irruppe sulle tivù mondiali un’analoga sequenza, in linea con l’eterna ritualità di degradazione, con la variante della decapitazione in diretta, previa la supplica del condannato, se inglese, di Tony Blair.

Questo accadeva dieci anni fa. Adesso il prossimo prigioniero destinato alla decollazione sarà inglese e c’è da giurarci che implorerà il premier Cameron, e, chissà mai, la nostra Mogherini. La domanda è se, fra una decapitazione e un’altra, fra una sequenza di pura macelleria e un’altra, stiano vincendo le composite forze alleate in azione nei luoghi dove, fra gli altri stermini, è stato impunemente attuato dai banditi sanguinari anche quello degli ultimi cristiani, di Ninive, Mosul. Perché questo è il punto. Il punto è se l’Occidente si è svegliato e si batte, e difende le ragioni della nostra civiltà nata anche in quella Ninive. Il punto è se l’America, e l’Europa, e dunque la nostra Mogherini, e la stessa Chiesa i cui martiri di Mosul richiedono ben altro che partite di calcio della pace o inni e preci comuni in nome dell’unificante ma fuorviante e mortificante monoteismo, hanno compreso la portata epocale dell’offensiva del Califfato. Soprattutto se hanno notato l’assordante silenzio di quasi tutto il mondo musulmano, di governo o di moschea che sia, rispetto ai criminali a zonzo per l’etere, vestiti da becchini, col nome del profeta in bocca mentre scende sul collo la scimitarra. È il silenzio della paura. La paura per un Califfato che disegna col sangue innocente i confini sempre più larghi di una sua aggressività foraggiata da scellerati sceicchi pieni di miliardi e da sovrani reazionari coltivanti l’appetito del coccodrillo nella speranza che mangi solo gli altri.

Tuttavia non va sottovalutata la questione centrale delle immagini: il loro impatto sulla opinione pubblica. Gira e rigira si torna sempre alla guerra del Vietnam. L’archetipo delle guerre moderne. Fu la guerra più mediatica, la più televisiva, quella nella quale foto, tv, radio, cinema e immagini hanno giocato un ruolo straordinario e decisivo. A favore delle vittime. Contro chi le metteva in onda, contro gli Usa. La guerra delle immagini fu persa già quando il generale William Westmoreland stava vincendo la prima offensiva del Tet. Era il primo febbraio del 1968 e in una strada di Saigon alcuni soldati sudvietnamiti stavano conducendo un prigioniero con le mani legate dietro la schiena. All’improvviso si fa avanti il capo della polizia del Vietnam del Sed, il generale Nguyen Ngoc Loan, senza dire una parola estrae la pistola, la punta alla testa del prigioniero e preme il grilletto. In quello stesso istante anche Eddie Adams, fotoreporter dell’Associated Press, preme il bottone di scatto. Di lì a poco quell’istantanea diventa una radiofoto e il giorno dopo finisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. L’opinione pubblica americana ebbe, per la prima volta, un moto di disgusto per la brutalità di quel boia alleato degli Usa. Ne seguirono altre in quell’Apocalisse dai tanti effetti collaterali.

La prima guerra “televisiva” della storia era destinata a diventare, per l’esercito americano, una guerra quotidiana contro l’opinione pubblica del mondo. Una guerra persa. Lo sarà anche questa del Califfato?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20