Probabilmente, in questo Paese della cuccagna ignorante, pochi si indigneranno della scelta da scalpellino della storia del Comune di Pescara. Fra i pochi, oltre al nostro direttore, “et pour cause”, ce ne sono alcuni che come me ritengono, non da ora, che una certa sinistra abbia fatto e continui a fare più danni alla storia della destra mettiamo del fascismo che, pure, è stato dannoso di per sé, in “re ipsa”, per usare il latinorun.
Il fatto è che eliminare dal logo di Pescara il nome del Vate, di Gabriele D’Annunzio, non è soltanto un gesto ideologico che abbatte d’un sol colpo la fama mondiale di un protagonista del costume e della storia, ma, soprattutto, un macigno scagliato contro la cultura italiana e mondiale. Cioè contro l’intelligenza. Non contro gli intellettuali, che appartengono alla subcultura, spesso e volentieri progressista, ma nei confronti della profondità della voce dell’uomo, delle sue più intime risonanze, di quella dimensione - la poesia, il teatro, la prosa - che sono il vero nutrimento dell’umanità. Scalpellare via il nome di D’Annunzio nella sua città e nella sua regione, va ben oltre l’iconoclastia provinciale e kitsch, ma si inscrive autorevolmente nelle pagine nere della peggiore ignoranza quella, per intenderci, di chi non sa chi sia, dove sia, e, soprattutto, da dove venga. Figuriamoci dove andrà.
La segnalazione del caso da parte dell’ottimo Giordano Bruno Guerri indica il misfatto peggiore, una sorta di autogol che gli annali citeranno di corsa, come succede spesso nell’italico gusto storicistico, ma che ogni persona con un minimo di rispetto della propria storia, non dimenticherà facilmente. È uno dei punti centrali, questo, del disprezzo della comune “historia patria”, nel dibattito che da anni si va elaborando, sulla scorta dell’immortale Renzo De Felice. Il quale pose le basi di un revisionismo che si fa strada, ma che incontra, mettiamo a Pescara, quei macigni degni di un ceto cripto intellettuale cresciuto abbeverandosi alle mammelle di una riscrittura della storia secondo la vulgata gauchista assurta al ruolo di fonte della verità e del battesimo. Sicché, nella città che D’Annunzio aveva fatto conoscere al mondo citandola e ricitandola nell’andamento ritmico e solenne della prosa da “Le novelle della Pescara” a “La figlia di Iorio”, si cancellano con una decisione politico burocratica gli stessi capisaldi di un’identità.
L’Abruzzo primitivo, barbarico, immortale delle consuetudini e superstizioni che si tramandano da millenni, è rivissuto, sublimato e, dunque, reso eterno, nelle pagine del Vate, con la sua umanità barbara e poetica, e la cui opera è intrecciata con miti e antichi stili della terra natale. La quale, dunque, si vendica con questa pugnalata alla schiena. All’autore de “I pastori d’Abruzzo” che tutti i ragazzi conoscono - o dovrebbero conoscere alla faccia di ogni (contro) riforma scolastica - per la musicalità e “una soavità che il cor dilania”, dove la poesia e la musica sgorgano dalla vita dei sentimenti profondi secondo una potente virtù evocatrice dell’anima primitiva dei pastori d’Abruzzo, delle loro secolari migrazioni ad ogni cambio di stagione, della loro vita patriarcale.
Non ci sono più, eppure continuano a vivere grazie a Lui, al Vate. La soavità eterea e trasparente di “Alcyone” ne “La pioggia nel Pineto” è da sempre un passaggio obbligato della poesia moderna internazionale per l’immaterialità dell’espressione e l’impercettibilità dei palpiti di un panteismo sensuale e misterioso che seduceva bensì Eleonora Duse e Luisa Baccara, ma imponeva alla cultura mondiale una delle voci più sensibili ed autorevoli, non liquidabile nella cornice semplicistica del “decadentismo”. Decadente e decadentismo usati a volte impropriamente e spesso strumentalmente, anche per via degli stili di vita, dell’esistenza dannunziana confondendosi, a volte, con la vicenda politica e le vistose contraddizioni di colui che inventò persino quell’ “Eja, eja, alalà” poi scippato, e in funzione del tutto diversa, dall’amico sui generis e invidioso Benito Mussolini, relandolo infine nell’autosacrario del Vittoriale.
Eppure, anche, forse specialmente, da una sorta di Mausoleo da vivo, da Museo di sé stesso, in un gioco di specchi crudeli di Dorian Gray, da questo luogo, visitato da incredibilmente giovani folle, proviene un messaggio che travalica persino le cattive pagine dei rifacitori della storia, a Pescara, ma non solo. Perché D’Annunzio, proprio al Vittoriale, nella sua scontrosa e volontaria clausura, fu al centro d’incontri tendenti ad una conciliazione generale, addirittura con trattative dirette con Francesco Saverio Nitti.
E nell’estremo della sua parabola, di una vita inimitabile di pensiero e di azione e di poesia, la sua infelicità del “taedium vitae” gli fece confessare con sincerità di volersi “sottrarre al fastidio – che oggi è quasi l’orrore – d’essere stato Gabriele D’Annunzio, legato all’esistenza dell’uomo e dell’artista e dell’eroe D’Annunzio, avvinto al passato e costretto al futuro di essa esistenza, a certe parole dette, a certe pagine incise, a certi atti dichiarati e compiuti: herotica eroica”. Il Vate avrebbe perdonato, dunque, gli scalpellini pescaresi. Noi, no.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:23