
Il sublime Gianni Brera aveva sentenziato, una volta per tutte, che, essendo il pallone rotondo, compito dei 22 che lo rincorrono per 90 minuti è di calciarlo nella rete. La metafora calcistica ben s’attaglia all’attuale stop and go renziano (non parliamo di intercettazioni & giustizia, per carità di patria) di cui la lunga puntata dell’altra sera su La7 del duo Sardoni-Sottile è stata la traduzione esemplare.
Con in più, e per fortuna, una domanda tutta politica, una chicca, che vedremo. Eh sì, perché, volenti o nolenti, la politica si fa in televisione. Curiosamente, ma non troppo, poco prima da Mentana era apparso il grillino Di Maio per uno scambio di battute che, alla fine della fiera, hanno segnalato l’impasse dei pentastellati sul cammino riformistico nella misura in cui il vice di Grillo ha evidenziato, sia pure con eleganza, le sotterranee divisioni interne e, contestualmente, il vero e proprio cul de sac, diciamo pure la trappola, in cui è finito quel movimento dopo che il Pd, come il gatto col topo, l’ha attirato in un gioco delle tre tavolette conclusosi con un liquidatorio: rispondeteci per iscritto. Come si diceva una volta: mandami un appunto, che poi finiva alla segretaria con su scritto un senza seguito, benché imperioso: occuparsene e riferire!
Ma torniamo a “In Onda” dove la peraltro brava Sardoni aveva un bel daffare a far scattare negli ospiti politici, la De Micheli (Pd) e la De Girolamo (Ncd), la scintilla risolutiva, finendo tutti insieme nel solito campo delle cento pertiche. Squarciato, a tratti, da lampi illuminanti. Prima c’è stato l’intermezzo surrealmente cinguettante su una donna al Quirinale. Tema alto, impegnativo, anche nobile se vogliamo. Le donne sono un must del renzismo. Eppure, sfiorare questo tasto, c’è da giurarci, deve aver fatto toccare ferro all’attuale, autorevolmente interventista ancorché napoletanissimo inquilino, che non pare alla vigilia di scadenze o dimissioni: perciò, di che stavano parlando? Poi è arrivato il pungiglione, la frecciatina, la chicca. Con una Sardoni che riflessivamente sardonica proponeva un tema con aculei incorporati, un terreno scosceso e inesplorato, per dire. Ma intrigante: Renzi, quello politico, è cattivo? È più cattivo di Berlusconi? E qui sono scattate appartenenze antiche e/o antipatie radicate. Argomenti validi da una parte e dall’altra, con gli ospiti, due scafati giornalisti come Damilano e Sallusti, entrambi sulle rispettive trincee.
Il tema della cattiveria in politica è probabilmente il meno approfondito, forse perché la categoria politica contiene di per sé tutte le cattiverie possibili e immaginarie, confuse, spesso, con le ostilità verso i nemici, fuori e dentro. Nel caso di Renzi la “cattiveria” è qualcosa di diverso, appartiene al personaggio che è andato creandosi, dalla scuola dei boyscout a quella Mike Bongiorno (il Cavaliere!) a quella post-ideologica se non post-partitica svoltasi dentro un Pd né carne né pesce.
Si è così strutturata una personalità sui generis. Costruita sulla lotta esterna, certo, ma specialmente su quella interna per affermare e riaffermare una leadership. Al di là di ogni ragionevole dubbio, Renzi ha mostrato grinta e aggressività, la cui somma si può tradurre nel termine “cattiveria”. Non quella dei monellacci, degli intriganti, dei parvenu, degli sgomitatori. Renzi ha un pregio, che è pure il suo limite, a volte incorreggibile, di dire ciò che pensa. Il suo motto primordiale è: io ci metto la faccia perciò toglietevi di mezzo, altrimenti... vi rottamo. Il rottamatore.
Ecco, in questo e per questo Renzi può essere definito “cattivo”, a differenza di un Berlusconi che, semmai, ha sempre l’obiettivo, come ogni tycoon che si rispetti, di piacere, premessa per convincere, ancor prima che per guerreggiare. Un’altra epoca, un’altra storia. Ora tocca al rottamatore. Che è chiamato (e votato) ad una sfida all’ultimo sangue, ad un O.K. Corral che non prevede nessuna seconda chance; è costretto a vincere, a puntare sul rosso o sul nero aumentando la posta e non può sbagliare. Donde la costrizione a minacciare, di volta in volta, o si fanno le riforme o me vado, la cui traduzione politica è: se non fate così, andiamo alle elezioni. Sempre di sfida mortale si tratta. Cattivo naturaliter, vorremmo dire. Inteso come inflessibile, decisionista, imprevedibile, irruente, sfacciato, presuntuoso, temerario, giocatore d’azzardo. Però, però... Si tratta, in gran parte, di una sfida ancora astratta, di promesse sia pure grandi, di parole brillanti, slogan azzeccati, battute efficaci e liquidatorie, a talk show notevoli. Ma la politica è (anche) un’altra cosa, soprattutto se la si calendarizza in nome della “politica del fare”. Il passaggio fra il dire e il fare è tutt’altro. Soprattutto in un Paese delle chiacchiere e delle promesse inesaudite, sullo sfondo dell’urgente gravità dell’economia e del lavoro, ovvero della crisi nera. Le riforme elettorali non danno da mangiare, si sente dire in giro.
Non a caso domenica scorsa “Corriere” e “Repubblica” hanno svolto una puntuta critica a Renzi, riassumibile in “meno belle parole, più fatti, caro premier”. Siamo al punto. Resta infatti da capire perché molte cose siano rimaste ferme al palo. L’esempio dei pagamenti della Pubblica amministrazione alle aziende è emblematico di una macchinosità impigliante e incomprensibile, a volte sadica, che invece di smuovere, frena e blocca. E intanto le aziende falliscono. Certo, la lotta alla burocrazia è sacrosanta. Ma, come direbbe De Gaulle: vaste programme. E sull’Europa, vanno bene le orgogliose impuntature identitarie, ma i risultati saranno, se ci saranno, fra mesi, fra anni. L’unica fortuna di Renzi è di non essere fra i responsabili politici di questi venti anni buttati via. Ma non basta. O forse potrebbe bastare per buttare all’aria il tavolo. E correre al voto. Appunto, la sfida.
Intanto la partita è in corso, bisogna giocare, correre e segnare. Dia retta all’immortale Gianni Brera: faccia giocare la sua squadra e calci il pallone in rete: goal! Domani è troppo tardi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:24