
Quando Piero Pelù (Pelù chi?) ha gratificato Matteo Renzi dell’appellativo “boy scout di Licio Gelli”, la platea del Primo Maggio è stata percorsa da un brivido oscuro, da una tenebrosa e incomprensibile eco: chi sarà questo Licio Gelli? Che ne sappiamo noi? Che rappresenta? Un attimo. E subito, vai con un’altra canzone, con un nuovo ritmo. È il rock politico, bellezza!
Si sa, concerti e talk sono eventi che non impongono riflessioni ma emozioni. Che si dilatano. Perciò l’effetto del telespettatore capitato per caso su quel concerto è stato ed è diverso. Grazie alla riproposizione della battuta su telegiornali, talk-show, agenzie, giornali e web. Come il caffè a soluzione immediata, le parole e i loro annunciatori riversano un ingrediente come un target evocando tutt’altro che il lavoro, tutt’altro che la storia. Sono i boyscout della parola, della tivù, della canzone, del concerto. Cioè della politica. È la nouvelle vague - in realtà molto, molto invecchiata - della variazione sul tema della politique d’abord, l’antica parola d’ordine d’antan divenuta oggi una programmata strumentalizzazione dei mass media per attaccare l’avversario politico.
E Beppe Grillo, che è un professionista nella materia, gode e incassa. Il fare politica non c’è più. È cambiato, e la torsione che i media hanno imposto alla narrazione della polis implica un linguaggio sempre più semplificato, un lancio di parole d’ordine (una volta si usavano le uova...) e un’immediatezza del risultato, tanto più consistente quanto più forte è l’impatto comunicativo. Il tema vero scompare e ne subentra un altro. Il lavoro e la sua più alta celebrazione in una giornata che già di per sé appare datata, sono stati messi tra parentesi in un Paese dove in suo nome s’alzano promesse e lamentazioni, riforme e progetti. E concerti, ovviamente. Scaturiti dalle istituzioni sindacali che, anno dopo anno, crisi dopo crisi, demagogie dopo demagogie, si sono visti sfuggire dalle mani la piazza romana del sacro rito del primo maggio. Un rito che, a differenza di quelli celebrati da Papa Francesco nella stessa città divenuta mediaticamente il set irripetibile di un nuovo inizio, di coinvolgimento globale, si è trasformato invece nel suo rovescio: un canto funebre, sia pure condito di propaganda.
Ma non soltanto a Roma il ricordo della festa del lavoro è divenuto, per l’appunto, un ricordo. Le parole servono anche a questo, a bruciarne il loro significato, a innalzare altri inni, a inviare messaggi diversi. Ma la realtà non cambia. Essa è dura, giacché i fatti hanno la testa dura. Cosicché avviene che contestualmente al concertone romano irrompano sui teleschermi le immagini delle violenze dei No Tav torinesi, gli indefessi manifestanti contro una delle più grandi opere del lavoro italiano, la Tav appunto. E meno male che la polizia non è finita nel tritatutto che sappiamo, al di là degli “sciagurati” applausi riminesi che, pure, dovrebbero imporre analisi ben più profonde rispetto alle pericolose spaccature che si stanno scorgendo. Ma la stessa musica, ovverosia il rock mutante, o il rap innervato di parole antagoniste, è suonata anche in quel di Taranto, all’indomani (sarà il caso, ma...) della morte, ai domiciliari, del patriarca dell’Ilva. Qui uno zazzeruto Caparezza non ha mancato di rivolgere parole al vento legate insieme da inconsistenti ritmi il cui sound evocava un Dies irae senza rimedio sull’ultima, la più grande, delle nostre fabbriche. Ma non era la festa del lavoro?
Già, la festa. Che qualche giorno prima aveva visto a Piombino la sua Messa da Requiem, altro che festa: un funerale, e in grande stile. Non a caso il suo massimo celebrante, sudato, barbuto, cattivo e sbraitante, si è recato nell’ex città dell’acciaio con tutto il suo armamentario di medicine miracolistiche, di pozioni colorate, di proposizioni palingenetiche, di rimedi sognanti, inesistenti. Nella fu città del ferro, crollata come le Torri di Babilonia di cartapesta in un set scalcinato di una finta Hollywood, quel Requiem aeternam non poteva che essere eseguito dal simbolo cupo e nichilista dell’ultimo stadio dell’antipolitica. Amen, e così sia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:19