L’ombrello protettivo del Presidente Renzi

Non sembri così stravagante accomunare sinistra, destra e centro (ops, dimenticavamo Alfano) in una riflessione che s’impone loro dopo il discorso di Renzi. Una sorta di ombrello protettivo, diciamo.

Intanto, lo stile del Premier non varia, non si modifica e neppure manipola, qualsiasi sia la tribuna e qualsiasi sia il ruolo, oggi di maggioranza e ieri di minoranza. Questa è la prima osservazione: Renzi non è cambiato. Era così alle Primarie, perse con la vittoria di Pirro/Bersani, lo è stato nelle successive (vinte) e nel periodo di dualismo con un Governo Letta che minacciava di trascinarlo nella palude senza averne responsabilità dirette. E lo è oggi insediato a Palazzo Chigi. Lo si avverte dal linguaggio, struttura formante della leadership, e che noi tentiamo di decrittare in chiave politica. Già, la politica e il linguaggio.

Anche il Cavaliere era ed è in parte così, giacché dalla sua “discesa in campo” e per alcuni anni ha rotto gli schemi tradizionali e ammuffiti della Polis d’antan, non soltanto in virtù della sperimentata comprensione e diffusione delle tecniche comunicazionali televisive, ma anche per un progetto, una visione, una proposta del “fare” intrecciata con una seducente trasmissione di emozioni. Poi, poi... Poi tutto si logora, anche il potere e chi ce l’ha, anche il suo linguaggio. Renzi mutua dal Cavaliere una disposizione inequivocabile, una modalità inconfondibile: la mancanza di mediazioni. Non parla ai politici, non si rivolge ai deputati e figuriamoci ai senatori tenendo la mano in tasca. La parola di Renzi è soltanto per i cittadini, gli ascoltatori, la gente (non più con due o tre g), cioè gli elettori. Da ciò un linguaggio semplice, comune, diretto (gufare, la pizza, ci metto la faccia, se non va è colpa solo mia, ecc.), le cui locuzioni spazzano via la professorale e metaforica polvere accumulatasi dentro la politica e, soprattutto, dentro la burocrazia. È una sfida nel tentativo di fuoriuscire dal tran tran secolare sfociato, con gli anni, i decenni, i ventenni, nell’immobilismo, nella palude. Ma il linguaggio, nella sua inflessibile impietosità, non tollera a lungo gli autoinganni, come è capitato all’ultimo Cavaliere insabbiatosi nella parentesi Monti oltre che nelle reti giudiziarie. Il logos necessita di conferme, il linguaggio dei fatti. Eppure, già di per sé la “parola pubblica” diventa affermazione perché è nutrita dalla vera essenza della storia, la politica. Qui sta l’aspetto nuovo: la politica riappare non più o non soltanto come promessa, annuncio, televendita, piuttosto come impegno pubblico e assunzione di responsabilità.

È crollato l’alibi della Seconda Repubblica: l’enorme debito accumulato dalla Prima (salvo poi più che raddoppiarlo in vent’anni - da 850 a 2200 miliardi). Non si parla più delle colpe dei predecessori ma delle proprie, basta con le responsabilità degli altri. Siamo entrati, probabilmente, nella Terza Repubblica, almeno come linguaggio. Perché questa svolta? Per la semplice ragione che solo così è possibile rispondere all’antipolitica, solo rischiando di proprio si può scalfire il nichilismo di Grillo, una forma di antipolitica del tanto peggio tanto meglio che, volenti o nolenti, ha trovato nella Casta il più feroce dei bersagli, e nel Paese un’enormità di consensi. Solo che i fatti hanno la testa dura perché rifiutano, come la politica, il vuoto. E di fatti hanno bisogno le parole renziane, anche se nel suo bigoncio qualche risultato s’è già visto, almeno a Montecitorio.

Ma intanto la sinistra italiana sta subendo una metamorfosi, una mutazione per ora linguistica, imparando una storica lezione: parlare come i comuni mortali, non porsi ex cathedra, non usare paroloni per occultare le proprie magagne. È già qualcosa. E la lezione vale per il centrodestra, in modo particolare per Forza Italia; Renzi l’ha portata al Nazareno e all’accordo di ferro. Ma Renzi e il suo stile sono un campanello d’allarme. Ha condotto FI in una terra inesplorata, in una terra di nessuno in cui non basta più il carisma, non è sufficiente fare l’opposizione, non bastano le pasionarie, non è più colpa di Tizio o di Sempronio. De te fabula narratur. Forza Italia ha bisogno di una forte iniezione di politica oltre che di liberalismo, smarriti in tanti anni di chiacchiere spese a dare la colpa alla Prima e, ogni tanto, persino alla Seconda Repubblica. A ben vedere, destra, centro e sinistra, cioè il sistema, cioè Alfano, Berlusconi, Casini ecc., sono costretti a tenersi Renzi, a mettersi sotto il suo ombrello, perché è l’unico che c’è per fronteggiare le ragioni (e i torti) rifugiatesi sotto l’altro ombrello, quello micidiale dell’antisistema.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:23