
Ci voleva un bel coraggio, qualche settimana fa (mica un anno o sei mesi), a garantire la certezza della governabilità provocando una scissione dolorosissima. E ci è voluta la sperimentata capacità di analisi di un Cicchitto, sommata alla ruvidamente efficace polemica di un Formigoni, per andare con Letta e, in un certo senso, per andare verso l’ignoto. Non se ne sono resi conto subito, quei nostri amici, ma adesso lo stanno percependo: che la garanzia di un governo Letta dalla duplice fiducia non basta a certificare una capacità di governo, non dà la sicurezza di un viaggio con una meta prestabilita, ma, al contrario di un percorso ad ostacoli, di respiro che temiamo corto, molto corto.
Eppure il disegno alfaniano conteneva le premesse di una prospettiva necessaria a un Paese sull’orlo del precipizio nella misura con la quale voleva garantirgli un periodo certo di stabilità a fronte degli stop and go devastanti e dalle crisi minacciate day-by-day da quel diavoletto di Brunetta. Governabilità, riforme, stabilità, lavoro di squadra, ripresa economica. Tutto detto e tutto sottoscritto dalla nuova maggioranza: pacta servanda sunt. Ma le cose non funzionano (sempre) così. E lo si sapeva già pensando all'avvento della nouvelle vague di Renzi, che in men che non si dica ha colpito al cuore il mantra di ascendenza nenniana “o la governabilità o il caos” con la destabilizzante offerta a Berlusconi di un assist in vista della legge elettorale, che è, per l’appunto, il cuore della politica.
Ma c’è dell’altro. Il Wall Street Journal l’ha evidenziato la scorsa settimana parlando di “stabilità cimiteriale” a proposito del lettismo governante mettendo il dito nella piaga. Ciò che infatti ha posto in luce il governo Letta, sia durante le grandi che le piccole intese è una sostanziale immobilità rispetto alla velocità degli eventi e in rapporto alla maggiore velocità delle scelte. In sostanza, al di là della legge sulla stabilità, poco o nulla di riformatore è stato fatto, sia sul piano economico-sociale sia su quello istituzionale.
Parole e promesse, tempi lunghi, prospettive lontane. Letta è caduto nello stesso buco nero di coloro che l’hanno preceduto in questi vent’anni sprecati, buttati al vento, rovinati da una classe politica che prima Grillo e ora i forconi trattano molto peggio di quanto sia stata trattata quella della Prima Repubblica, dove, almeno, la gente stava bene e, come si dice, ce n’era per tutti.
Se l’orripilante guitto fascistoide ha posto all’odg l’insopportabilità della mancata autoriforma della classe politica, i forconi hanno scavalcato l’onda grillina sbattendo in faccia a tutta ma proprio tutta la politica, accomunata a burocrazie e oligarchie bancario-finanziarie e finanziere, il guanto del rancore, dell’odio e del risentimento, non tanto per le riforme elettorali o istituzionali mancate men che meno per la fine delle grandi intese o per l’espunzione giudiziario-politica del Cav.
Non sono “cose” che si mangiano, ce ne freghiamo altamente, vogliamo vivere! Al fondo delle proteste dilaganti, nel grande ventre dell’Italia malata, il senso più vero di queste jacqueries del terzo millennio (nell’Ottocento, Novecento cantando l’Italia è malata, di Rudinì non è il dottore! ci furono le rivolte del pane, ovvero dello stomaco, con tanto di Cannoni di Bava Beccaris e stati d’assedio) sta nella grande paura, nel grande timore. È l’angoscia di chi stava bene e ora va incontro a una povertà ritenuta immeritata, è il terrore di chi viveva del proprio lavoro e se l’è visto distrutto da un fisco disumano.
È, insomma, la voce di un’intera classe sociale che nella Prima Repubblica aveva raggiunto dignità e benessere, e che ora che si vede giorno dopo giorno abbandonata, stremata, dissanguata: più povera. È il ceto medio che si rivolta. È il ceto portante del Paese, quello promosso dal welfare d’antan tramutatosi nel suo rovescio :un’ingiustizia tremenda. Su queste “ragioni” bisognava che la nuova maggioranza intervenisse da subito, con provvedimenti immediati, minacciando le banche e la stessa insensibile Europa, che invece Letta ha gentilmente sfiorato con un buffetto, confermandosi l’erede diretto non di De Gasperi ma di Rumor, non di un Fanfani ma di un doroteo aggiornato, talché lo stesso Alfano sembrava il Restivo del tempo che fu.
Sottovalutando, per di più, l’espunzione di cui sopra. Com’era pensabile che il Cav rimanesse docile in attesa del gabbio e che, soprattutto, la sentenza fatale non pesasse come un macigno sull’intero quadrante politico, con l’aggiunta della devastante sentenza costituzionale che ha delegittimato l’intero Parlamento? Può un Paese come questo tollerare che il leader di un grande partito sia liquidato in tal modo senza che ne nascano reazioni a catena innestate su altre, non meno esplosive? Berlusconi, se abbiamo ben inteso, insisterà vieppiù con l’idea del golpe plurimo, nella deprivazione per il Paese di governi voluti dal popolo sostituiti dall’alto, dalle oligarchie nazionali e internazionali, coinvolgendo in questo il Colle. Giusta o sbagliata che sia, la svolta del Cav accentuerà le tensioni e, al tempo stesso, accelererà il processo disgregativo in atto.
Ma il quadro è cambiato con l’avvento di Renzi, che non solo sta sparigliando i giochi della neo-maggioranza ma imporrà, fra qualche giorno, un nuovo ritmo, una sua velocità, un diverso percorso. Non perché lo voglia, ma perché costretto dall’immane disastro combinato nei venti anni passati, da cui è immune, e dall’immobilismo di oggi, dal quale prende le distanze andando verso l’unico sbocco possibile: ridare la voce al popolo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:49