A passo d’uomo (nelle sale italiane da domani), del regista Denis Imbert, con Jean Dujardin (Pierre) e Josephine Japy (Anna), è un film tratto dall’omonimo libro autobiografico di Sylvain Tesson e parla di un dramma della montagna, in cui però le rocce non hanno alcuna responsabilità in merito alla stupidità umana. Infatti, che cosa accade quando si è per l’ennesima volta ubriachi e si decide tra i fumi dell’alcool di fare gli sbruffoni, sospesi e appesi a un cornicione a otto metri di altezza? Facile: si perde la presa e, toccato terra, si inizia a camminare sui sentieri neri dell’esistenza. E fu così che da aitante rocciatore-scrittore e instancabile camminatore sui costoni delle cime di montagna si diviene come larve, confinati in un reparto ospedaliero di rianimazione, tenuto in vita dalle macchine, per frattura delle costole, lesione vertebrale e un serio trauma cranico. Un colpo letale che avrebbe atterrato un elefante. Ma non lui, il protagonista del film, Pierre, che fa una solenne promessa a sé stesso: se mai riuscirà a camminare di nuovo, per gratitudine verso l’immenso mistero della vita, attraverserà l’intera Francia dalla Provenza a Mont Saint Michel, fino ad arrivare al mare lontano mille miglia dal punto di partenza. E lo farà nel modo più avventuroso e azzardato possibile, camminando lungo sentieri neri non indicati nelle carte, tracciati mentalmente consultando mappe geografiche in cui sono riportate accuratamente le curve di livello, per evitare situazioni senza via d’uscita, come quella di cadere in pericolosi crepacci.
E, in tutto questo, d’accordo con il suo editore che acconsente disperato a questa prova folle, Pierre terrà una sorta di diario di bordo, annotando tutta una serie di riflessioni e situazioni di fatto. Lo accompagneranno per brevi tratti un caro amico d’avventure e sua adorata sorella, con la quale ricorderà l’indimenticabile figura materna, di recente scomparsa. A passo d’uomo è la storia atroce ed eroica di un corpo malato e malandato cui si chiede e ne si ottiene la resurrezione, perché tale è il cammino nella sua profonda spiritualità. La meta geografica non è che il fine strumentale di quella prodigiosa, graduale e faticosissima guarigione del fisico e dell’anima di un rocciatore caduto e naufragato nella vita. E la sua Via Crucis è un lunghissimo serpente nero di sentieri invisibili e non segnati sulle carte, che salgono e scendono in terreni infidi e friabili, lungo pendii scoscesi di rottami di schisti e di sassi, in cui i piedi malfermi trascinano il corpo verso il basso, mentre il busto si tiene tenacemente aggrappato ai bastoni da trekking per non subire l’insulto della gravità, che lo aspetta paziente ed eterna in fondo alle vallate a più basso potenziale. E l’occhio segue angosciato quegli scarponi incerti nel passo che non si adegua, mentre scorre il volto sofferente del penitente che continua lentamente ad avanzare, di scollinatura in scollinatura, di crisi epilettica in affaticamento cardiaco, con ricoveri intermedi al pronto soccorso, prontamente abbandonato appena i farmaci fanno effetto, per riprendere testardamente il cammino prefisso.
E non importa se dietro si è lasciata la bellissima Anna, il grande amore di una vita, come mostrano gli struggenti e frequenti flashback prima e immediatamente dopo l’incidente. Nulla, più nulla da quel momento in poi, quando le gambe riprendono faticosamente a muoversi abbandonando il carrello ortopedico, può sostituire l’esaltazione del cammino, unica e sola fonte di guarigione per chi è abituato alle sorgenti di montagna, al formaggio fresco di passo, a un’umanità forte e rada come gli arbusti nel deserto. Per ammaestrare la propria solitudine non c’è che il ritorno alle origini, dormendo all’addiaccio del freddo di montagna, accanto a fuochi improvvisati, alimentati da rami secchi raccolti tutto attorno al perimetro in pietra del focolare precario, con le stelle per compagnia e il richiamo del lupo a distanza. Tutto per domare quella belva del malessere esistenziale che perseguita l’uomo moderno, supertecnologico e con l’anima in pena per essersi perduta nell’affaccendamento inoperoso della vita di città. Dedicato a tutti coloro che la montagna, con le sue leggi di natura e le splendide, pericolose avventure che ne conseguono, ce l’hanno nel sangue.
Aggiornato il 18 ottobre 2023 alle ore 16:03