Quando la vita è una… “trappola”

Al Teatro Argentina di Roma è in cartellone, dal 9 al 24 marzo, per l’adattamento e la regia di Gabriele Lavia (che interpreta il ruolo del protagonista), il capolavoro teatrale di Luigi Pirandello “La Trappola”. I contenuti dell’opera assomigliano a un quadro astratto: la fiammella caravaggesca di una candela, che allunga i suoi riflessi di giallo intenso sul megafono di un grammofono a punta, diventa vasta e luminosa come una cometa, nel corso della narrazione. Nella sua coda -grande quanto interi sistemi solari- si frantumano e si ricombinano le immagini delle nostre vite, cubicamente vivisezionate e poi picassianamente ricomposte, in maniera sghemba, sulla trama dell’esistenza. Sempre intrise in atmosfere di emotività circolante, sottratte alla forma-trappola, che imprigiona nei suoi reticoli cristallini gli attori elementari della luce (fotoni, elettroni, neutrini..). È come se Pirandello avesse, da grande veggente, tradotto in antimateria commediante le scoperte della fisica teorica dei quanti, che vide la luce nei primi decenni del novecento. Novella e testo teatrale sono delle sorprendenti traduzioni di dialoghi impossibili di Pirandello con Plank ed Einstein.

Il suo personaggio, infatti, si esprime esattamente come loro, con teorie esistenziali arditissime, che riceveranno dignità di teoria fisica da Fermi e Dirac, all'interno dei loro visionari studi sulle proprietà dei gas di particelle. È sì, perché la vita umana, prima di essere coagulata nella trappola di un essere nascente, è pura energia randomizzata, che riempie di se l'universo del visibile e dell'invisibile, della materia e dell'antimateria, viaggiando come onda da un capo all'altro della volta stellata, senza limiti di tempo e di spazio.. Qualcosa cattura, poi, quella prodigiosa energia allo stato selvaggio, facendo di microscopiche meraviglie, senza briglie e regole, un apparato servente (atomi, amminoacidi, molecole, enzimi) di una forma rigida, una vera trappola entropica, che attenua e uccide progressivamente la libertà di essere, eternamente, "tutto nel Tutto". Quindi, la vera liberazione non può che risiedere nella disgregazione di qualsiasi forma-carcere, lasciandola transitare per le fasi decompositive della materia organica (la morte "fisica", dunque..), affinché venga restituita alla luce del buio cosmico la vera conoscenza e onnipotenza. Perché l’oscurità risiede nella cecità dell'occhio umano, incapace di cogliere le immense meraviglie luminose che si celano all'interno dei corpuscoli particellari. È in quella famiglia di quanti che l'Io onnipotente, finalmente liberato (anche per il tramite di un atto di omicidio-suicidio), ridiventerà onda e corpuscolo allo stesso momento, annichilando le barriere dell'infermità e della vecchiaia, che uccidono le proprietà ergodiche dell'eterno stare in movimento.

La trappola, in questo senso, appare come il sogno futurista in prosa di un Pirandello, disperato e vaticinante, che mai come in quest’opera, macerante e contraddittoria, dà prova di genialità indiscussa, capace di trasmettere al suo pubblico l'immagine sublime di un Se allo specchio, che vive come un Golgota l'impossibilità di cambiare la propria immagine riflessa! E la fabbrica delle trappole delle trappole... (lungo la sequenza infinita intergenerazionale della continuità della specie) è rappresentata dal corpo femminile. Bellissimi gli intermezzi che un Lavia, sempre ispirato, ha voluto frapporre a questa sequenza nidificata di significati complessi, come la scena dell'inseguimento, prima della copula, da parte della donna-mantide nei confronti del protagonista. Il tutto, esaltato da una forma di allucinazione ottica, sul modello della lanterna magica, ottenuta attraverso un potente fascio di radiazione luminosa intermittente, proveniente da un angolo verticale della scena, in cui il biancore lampeggiante dell'indumento intimo femminile rappresenta uno strumento di coscienza sadica e punitiva.

Oppure, come in quell'altro intermezzo, in cui il Lavia-Fabrizio pigia sui tasti di un piccolo pianoforte, facendo il verso al disco di vinile, immobile sul piatto del grammofono a coda.. È, poi, c'è l'arredo, profuso sul palcoscenico come i tronchi di una foresta pietrificata, con grandi scaffali grigi, irti e immobili, carichi di libri come rami secchi di una conoscenza nietzschiana, in cui il Superuomo si mescola indissolubilmente all'istinto di morte. Gli armadi e i contenitori di cose, in generale, sono sempre e solo, secondo le elucubrazioni del protagonista, contenitori di materie defunte o defungibili, come gli abiti viziati dalle grucce e dalle ossa sporgenti di gomiti e ginocchia anchilosate, i cui brusii sono udibili anche a distanza, lungo i movimenti impacciati e legati di un corpo-trappola, che invecchia pur senza mai rinunciare a vivere come un.. morto! Morale? Grandiosa, direi: la verità è divisa nei suoi infinitesimi. Finché saremo "interi", intrappolati nelle nostre gabbie energetiche, non la coglieremo mai. Perché solo nell'Al di Là esiste la vera vita, quando ridiverremo "infiniti infinitesimi"!

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:30